di Titti Casiello
Epica. Questa è stata la verticale di Barbaresco Rabajà e Rabajà Riserva dell’azienda Giuseppe Cortese, tenutasi nella nuova sede partenopea della Banca del Vino.
Se un poema è epico, quindi un componimento che narra di gesta leggendarie, allora è esattamente quanto è successo a Villa Signorini di Ercolano, in una serata moderata da Alessandro Marra e Adele Granieri – coordinatori Slow Wine per Campania e Basilicata – con il responsabile commerciale dell’Azienda Gabriele Occhetti. A scriverla questa storia è stato il contadino che voleva diventare un artigiano del vino, Giuseppe Cortese, ma a narrarla, però, sono stati i suoi stessi vini, in un crescendo di annate tra intrecci di vita familiare e vicissitudini della sua terra: Barbaresco. “Vino Mito”, che a pensarlo ci si emoziona anche senza averlo bevuto. E poi lo bevi e a parlare, parla lui, il vino. E’ questo il fil rouge che ha legato tutti i Barbaresco Rabajà in degustazione, dove in un crescendo di annate 1998, 2004, 2001, 2013 e 2014 (con doppietta di 2011 e 2013 per la Riserva) pareva di scendere ogni singolo gradino della cantina di Via Rabajà e di ripercorre a ritroso la sua storia. Una storia che parte nel 1971, anno in cui Giuseppe, affiancato dalla moglie Rosella, decide di scommettere sul vino Barbaresco. Erano tempi in cui ben pochi ci credevano, attenti invece a guardare, col naso all’insù, al Dio Barolo. Ma lui ci credeva. Ed è lui che ha fatto un pezzo di storia di questa Denominazione che, oggi, può essere prodotta solo ed esclusivamente in 3 comuni (Barbaresco, Treiso e Neive) più una piccola parte del comune di Alba. Una Docg, quasi di nicchia, con appena 2.400 ettari. Ed è da qui che Giuseppe inizia a produrre i suoi vini, in quella piccola vigna nel Rabajà. A quei tempi probabilmente era inconsapevole lui stesso che Rabajà sarebbe diventato, da lì a poco, il più ambito vigneto del Nebbiolo da Barbaresco. Rabajà è, infatti, una delle menzioni geografiche aggiuntive più conosciute dell’intera denominazione. Situata nella parte più alta della collina, dagli Asili alla Trifolera, e caratterizzata da terreni sciolti e fertili che, di conseguenza, regalano vini meno tannici e, generalmente, più eleganti rispetto, invece, all’altro crinale, che va da sud-ovest a nord-est, e dove si incontrano cru come Rio Sordo, Martinenga, Asili e Ovello, dai terreni fortemente più calcarei e dai vini più tannici e minerali.
Ed è proprio sul lato più vicino alla Trifolera, nel cuore del Rabajà, che la famiglia Cortese, arrivata alla terza generazione, abita e cura le sue vigne, per un totale di nove ettari vitati e circa 58 mila bottiglie prodotte tra nebbiolo, barbera, dolcetto e chardonnay. Oggi curati dai figli Piercarlo e Tiziana e dalle loro rispettive famiglie, dopo che Giuseppe, nel 2018, purtroppo è scomparso.
Ma nulla pare essere cambiato nella cifra stilistica dei vini di Cortese, ed infatti come il padre così il figlio, Piercarlo: “Nessun enologo esterno ha mai influenzato la mia idea di vino, essere artigiani del vino vuol dire interpretare l’uva cercando di trasferirne l’essenza nel bicchiere con precisione ma senza omologazione”. Una conferma che arriva anche in questa verticale, che si rileva, appunto, epica tra sorsi scolpiti negli anni ed esaltati dal tempo. In un tempo – dal ’98 al 2014 – dove pare che poche cose siano cambiate in questa cantina quanto alla “ricetta tradizionale” del Barbaresco Rabajà: un Nebbiolo in purezza, che fermenta in vecchi tini di cemento per circa 30 giorni e affina poi dai 20 ai 22 mesi in botti di rovere di Slavonia. E se queste le doverose premesse didattiche, la degustazione, è, invece, un lungo percorso sensoriale, dove l’abbandono alla piacevolezza diventa estremo, e si tramuta in appagamento e alimento dell’anima.
Barbaresco Rabajà Docg 2014
Un’annata diventata croce e delizia tanto per i produttori che per la critica. Bistrattata e innalzata al pari. Ma ciò che è certo è che è stata, senza dubbio, un’annata altalenante, piovosa e fredda. Così a trovare l’eccellenza bisogna saper cercare. E si pesca bene con Cortese, che si dimostra uno dei migliori interpreti di questo millesimo. Colori giovani e vividi fanno da precursore ad un profilo olfattivo gioviale dal frutto vivo e intenso e dai leggeri sbuffi terziari di sottobosco e liquirizia. Sorso gustoso, ma verticale. Nulla che non sia rispondente a quest’annata. Vino, dunque, veritiero, ma le potenzialità per un grande invecchiamento ci sono tutte.
Barbaresco Rabajà Docg 2013
Luce che cade in un calice di un vivido rosso granato e svela all’olfatto una forza aromatica nuda. Nessun orpello, qui è solo l’odore del terroir a mostrarsi. E’ frutta, uva, e terra. E se pare poco, ciò che arriva è la profondità e il vigore del suo odore. Il suo piacere gustativo è notevole, ma ha così tanto potenziale da mostrare che vien da dire che sia un esemplare ancora in divenire.
Barbaresco Rabajà Docg 2011
Per lui c’è poco da essere didascalici e didattici, qui vince la prosa, l’emozione. Audaci tinte di rosso granato. Nettezza e precisione degli aromi. Un aristocratico profumo di frutta ed accenni di note balsamiche, di alloro e di foglie di menta. Il palato è pace e armonia di un senso, mentre in retronasale emerge un animo selvaggio tra note di humus e sottobosco. Sorso saldo tra materia, alcol ed un notevole sviluppo. Un altro aggettivo non potrebbe averlo: indelebile. Vino Mito.
Barbaresco Rabajà Docg 2004
Tanto limpido quanto scuro, con un naso, in continua evoluzione, tra petali di rosa, violetta e more. E poi aghi di pino, pellame e tè. Il palato è di grande impatto sia per il volume che per la prorompente ma integrata tannicità. Acidità e sapidità giocano tra loro in un filo di perfetto equilibrio. Avrebbe 17 anni, ma così è solo se vi pare, direbbe Pirandello. Lui è un giovincello che può percorrere ancora tanta strada.
Barbaresco Rabajà Docg 1998
Da non menzionare. Causa una bottiglia non in splendida forma. Eppure un millesimo da ricordare negli annali.
Barbaresco Rabaja Riserva 2013
“Ascoltare la vigna e capire che solo alcune annate possono essere portate all’apice” è da questa idea che nasce il Riserva Rabajà. Ciò lascia, quindi, intendere la rarità di questa bottiglia, prodotta solo quando mente e cuore ritengono che tutto sia perfetto in quell’unica vigna di 70 anni da cui è prodotto. E se, quindi, tutte le coincidenze astrali risultano ottimali allora da lì in poi bisognerà solo aver pazienza. Un bel po’ forse: con “appena” 40 mesi di affinamento in legno e 3 anni in bottiglia. E di pazienza per la 2013 ce ne vuole anche un po’ nel calice che stenta ad aprirsi, mostrandosi dapprima polveroso e poi poggiandosi su morbidezze olfattive che non incitano particolarmente la curiosità. Sorso composto, anche se leggermente caldo in deglutizione. Vino da comprendere in divenire.
Barbaresco Rabajà Riserva 2011
Arriva dopo le grandi odi mostrate al suo fratello minore, Barbaresco Rabajà 2011, e risulta difficile, dunque, tenergli testa. Ma ci prova e si posiziona, quasi, a pari merito. Il suo naso è l’etoile ad una prima della Scala, tra finissime ed eleganti note di foglie di menta, petali di iris ed erbe selvatiche. Il suo sorso è ancora lei nelle sinuosità dei suoi movimenti, in una notevole armonia e compostezza regalata da un liquido sottile, ma forte. Una riserva di grande classe, che pare portare direttamente su quella collina, a Rabajà. Vino Mito