“Festina lente” (affrettati lentamente, trad.) il motto dell’Imperatore Augusto che portò a rendere epiche le sorti del suo impero romano. E se festina lente diventasse anche il motto del Fiano di Avellino Docg? Attraverso quel lento, ma costante passo senza indugi verso il successo della denominazione? La conferma arriva durante le giornate dedicate alla dodicesima edizione del Fiano Love Fest, la kermesse che, arrivata alla sua dodicesima edizione, vede, appunto, come protagonista il più famoso dei vitigni campani. Così durante il “tasting impossible: la mia prima volta” – condotta dal giornalista Luciano Pignataro e dal presidente dell’Ais Campania Tommaso Luongo – il Fiano di Avellino è, infatti, andato in scena senza vestirsi di nuovo, ma di vecchio: e in un percorso a ritroso, che dalla 2018 ha sfidato il tempo con una bottiglia datata 1989, ne è venuta fuori la sua innata capacità di trasvestirsi da Benjamin Button.
Non una capacità così scontata se a ben vedere non è sempre stata universalmente riconosciuta neppure dagli stessi vignaioli irpini, bastando pensare che manca anche nelle cantine degli stessi un loro personale archivio storico di annate passate. C’è voluto, infatti, un mind shift culturale, che non appartiene solo alla Campania, ma all’Italia tutta e che servisse a favorire l’idea di conservare, di dimenticare in cantina. Il concetto di vecchio doveva essere sostituto a quello di longevo, ma per farlo c’era bisogno di sperimentarlo e capirlo sul campo perché quella capacità – che solo un lento, pigro, ma costante riposo in bottiglia sa creare, restituendo al vino forme e sostanze nuove – non può essere un concetto generalizzato né poi applicabile a tutte le terre e a tutti i vitigni. Eppure una volta capito che l’areale irpino era terreno fertile per impiantare non solo Fiano, ma anche evoluzione, la grandezza del vitigno non ha stentato a mostrarsi. E così oggi a quella struttura e tessitura acido-sapida che da sempre caratterizzano il suo assaggio va di pari passo anche la longevità, l’unica in grado di implementare un profilo aromatico di grande fascino.
Da un ventennio a questa parte la lungimiranza allora non è più solo “un caso” fortuito in Irpinia, e la vera sfida del vignaiolo è proprio quella di non subire più il tempo, ma di saperlo gestire e interpretare: lo si aspetta e lo si modella in vigna tanto in cantina, con progetti in grado di sfidarlo, attraverso stili e scelte produttive ponderate per interpretare andamenti climatici e annate. Allora arrivati a questo punto sembrerebbe mancare davvero solo l’ultimo tassello per consacrare definitivamente la denominazione. Perché se dici Fiano di Avellino chiedi almeno se è di Lapio, di Summonte, di Montefredane o di Salza Irpina. Macro aree di elezione nelle quali il Fiano di Avellino trova espressioni e sfumature diverse e peculiari. Ma questa, però, è una profilazione solo per “sentito dire” della quale non c’è alcuna traccia in quel disciplinare di produzione che quest’anno – arrivato al suo ventesimo compleanno – forse inizia a scalpitare tra maglie così generalizzate delle sue zone di produzione.
“Il Fiano è la denominazione campana per la quale puntare alla zonazione”, osserva il presidente dell’Ais Campania. E concedendoci così di immaginare che i singoli areali irpini nulla avrebbero di meno o in più ai blasonati cru borgognoni.