di Alessandra Meldolesi
Dove sta andando la Franciacorta?
A diradare le nubi sopra il Lago d’Iseo è intervenuta una degustazione singolare: ben 20 vini base dell’ultima vendemmia, degustati didatticamente con Nicola Bonera, per cercare di immaginare i lineamenti degli spumanti a venire e ficcare un po’ il naso nella cassetta degli attrezzi di ogni chef de cave, al momento di assemblare le sue irreparabili cuvée. Proiezione nel futuro seguita da un repentino tuffo nel passato, con la presentazione di 6 riserve vecchie 120 mesi, sboccate al momento a scopo sperimentale, per spiare rischi e atout dell’evoluzione extra long. Ma prima di tutto qualche cenno sulle tendenze degli ultimi anni, in una denominazione ormai iconica per il made in Italy. Si comincia dalla sostenibilità: il Consorzio Franciacorta, primo in Italia, ha avviato un programma volontario di riduzione delle emissioni su scala comprensoriale. Oltre 1.900 ettari sono attualmente condotti secondo il metodo biologico su un totale di 3.100, dove vige comunque un rigido controllo sui trattamenti fitosanitari, con l’utilizzo di essenze erbacee, diffusori di feromoni sessuali contro i parassiti, monitoraggio degli organismi dannosi o utili del soprasuolo. Ulteriore modernizzazione arriva dalle centraline meteo diffuse sul territorio e disponibili su app. Un altro progetto, denominato Enofotoshield, mira alla messa a punto di protocolli enologici contro il cosiddetto “difetto di luce”, quella nota di minestrone o cavolo cotto che può derivare dall’esposizione alla luce all’interno di bottiglie in vetro incolore.
La denominazione ha ancora tanto da svelare, se è vero che due terzi dei vigneti hanno meno di 20 anni e devono ancora esprimere il loro pieno potenziale. Gli impianti giovani segnano anche una discontinuità nelle coltivazioni, dove lo chardonnay arretra in favore del pinot nero e dell’erbamat, uva autoctona franciacortina, utile per la carica acida oltre che per il richiamo identitario. Presente in zona da 5 secoli, nel mirino della selezione clonale e del miglioramento genetico, manifesta note vegetali quasi da verdicchio, talvolta con profumi da semiaromatico e una maturazione tardiva, utile per contrastare gli effetti del riscaldamento climatico. Poi c’è il pinot bianco, anch’esso in crescita per la finezza nel bicchiere. Numericamente nel 2021 lo chardonnay sfiorava l’80%, seguito dal pinot nero al 16%, dal pinot bianco al 3% e da qualche decimale di erbamat, ammesso nel disciplinare (tranne nel satèn) sotto il tetto del 10%. Il mercato in ogni caso ha premiato: perfino nel 2021 ha segnato +16,8% sul 2019 in Italia e + 5,3% all’estero (con riferimento al 2020, rispettivamente + 28,4 e +27,6, per l’effetto rimbalzo), quali sbocchi principali la Svizzera, gli Stati Uniti, il Giappone e la Germania. Fra le tipologie, il brut è al 74,3%, il rosé al 13,6%, il satèn al 12%.
Le basi sono state degustate alla cieca, in ordine di vitigno: prima l’esile pinot bianco, con l’incursione di un unico erbamat; poi gli chardonnay, i pinot noir vinificati in bianco e finalmente in rosato. Batterie di assaggi mirate a correlare l’esito organolettico alla cosiddetta “unità vocazionale”, che corrisponde ai caratteri geologici delle diverse microzone, temperati dal clima e da altre variabili fisiche. Sono 6 ed emergono tutte nitidamente nel bicchiere: i depositi fini con le loro note floreali; il fluvio glaciale che vira sulla frutta secca; il morenico profondo, particolarmente vocato per le doti di complessità, persistenza, speziatura e crescendo sul finale; il morenico sottile, veicolo anch’esso di complessità, con sfumature tendenti al vegetale; i colluvi distali, terroir che combina e bilancia un po’ tutti i valori summenzionati; per finire con i colluvi gradonati, che regalano tanto di tutto, complessità, persistenza, speziatura, veri antagonisti del morenico profondo, che tallonano nel punteggio fra i valori. Sono loro i protagonisti delle bottiglie top di gamma, con il concorso di comprimari che apportano finezza, distensione, acidità. Un bilanciamento in cui intervengono ovviamente le scelte di cantina, come l’uso del legno o dei lieviti indigeni per una maggiore personalità, ben evidenziati all’assaggio. Com’è profondo il morenico, è proprio il caso di dire.
Il viaggio nel tempo è proseguito con gli assaggi di 6 riserve 2011, millesimo dalle condizioni climatiche considerate ideali: Le Marchesine, La Fiorita, Bellavista, I Barisei, Mirabella e Ricci Curbastro. Bottiglie che hanno dimostrato vitalità, talvolta con lievi cenni di ossidazione incipiente. Il Vittorio Moretti, in particolare, è un monumento che sfida il tempo, integro nelle sue note nitide di miele e nella cremosità avvolgente, anche grazie all’ossidazione controllata in funzione stabilizzatrice. È il risultato del riequilibrio, con il bilancino da farmacista, fra le diverse unità vocazionali, l’acciaio e il legno, lo chardonnay e il pinot nero, sempre più coprotagonista oltre il cliché dello “chardonnay da pianura”. Bacca rossa che negli anni in Franciacorta evolve verso pregevoli sentori balsamici “anicizzati”, tra la spezia verde, il finocchio, l’elicriso e l’aneto.