di Simone Cantoni
Nome in codice, “gỏi cuốn”. O meglio: il loro nome effettivo, in vietnamita, la lingua d’origine della ricetta.
Tradotto letteralmente, “involtini d’insalata”. Tradotto (e adattato) in inglese, “Vietnamese fresh spring rolls”: ovvero “involtini primavera alla vietnamita”, così da esplicitare la specificità del piatto. Tradotto (e altresì adattato) in italiano, “involtini estate”: così da distinguerli ancor più immediatamente (per i dettagli della preparazione ci sarà tempo) appunto dai meglio noti, almeno da noi, “involtini primavera”. Il discrimine più significativo è in effetti forse questo: giacché parallelamente più elevato è il rischio di cadere in equivoco. Rischio da evitare: da un lato abbiamo una specialità proveniente dalla galassia gastronomica cinese; dall’altro una tradizione pure asiatica ma di diversa cultura; e di diversa personalità gastronomica.
LA RICETTA. ANZI, LE RICETTE
Una personalità che discende dalla natura stessa del piatto. Il quale, sostanzialmente, consta di piccoli involucri in carta di riso (la forma è grossomodo cilindrica: piccoli salsicciotti, insomma), contenenti un ripieno composto da verdure (lattuga, ad esempio), vermicelli di riso o soia, bocconcini di carne cotti al vapore (classici sono i gamberi sgusciati e gli straccetti di maiale), erbe aromatiche (quali menta, coriandolo, erba cipollina…). Una formula provvista, dunque, di certa elasticità e articolabile in più varianti. Anche perché il gusto dell’involtino, decisamente delicato, viene irrobustito immergendone l’estremità destinata al morso in una salsa, essa stessa preparabile in più declinazioni: una delle quali prevede il ricorso a zucchero di canna, aceto di riso e peperoncino.
IL GIOCO DELLE COPPIE
Per un buon connubio a tavola (tema attorno al quale ci si è confrontati nel corso di una serata organizzata, a Prato, dal pub “Mosto di malto”) è sensato partire, come sempre, dal tracciamento del profilo organolettico ascrivibile al boccone. La consistenza è morbida; e il contenuto in grassi assai modesto, al contrario di quello in carboidrati ed eventualmente proteine (la soia). Quanto alla densità sensoriale, risulta estremamente oscillante: si presenta infatti delicatissima nel consumo “in solitaria” (ipotesi in cui, tra i fattori da considerare con prudenza, abbiamo giusto l’agliaceo dell’erba cipollina più le note “animali” di gamberi e maiale, peraltro esse stesse piuttosto blande, dopo la cottura al vapore); e invece, quella densità sensoriale così in sordina, schizza in orbita se si provvede ad potenziare l’involtino con l’additivo del condimento: che fa “volare” i contatori dell’acidità, della sapidità e della piccantezza. Morale, a una condotta sensoriale potenzialmente così mutevole, bisogna rispondere con regole d’ingaggio esse stesse “parametriche”. A venirci in soccorso è l’eclettismo dei birrai artigianali liguri…
CON LA WITBIER
Si parte con una Bière Blanche non canonica, la “Bianca” di “Maltus Faber” (Genova). Che in miscela ha sì orzo, frumento e avena; ma che in aromatizzazione rinuncia al binomio coriandolo-arancia per affidarsi invece alle virtù odorose (agrumate a loro volta: questo il “gioco”) di luppoli quali Cascade e Citra, accanto ai quali figura il Saphir. Ebbene, tanto poco rituale è la ricetta di questa Wit, quanto classica risulta, al contrario, la logica del suo abbinamento al nostro piatto asiatico. La birra, con la sua acidulità, la sua bollicina e la sua gradazione (per quanto modesta: 4.7), agisce infatti efficacemente sia sulla materia amidacea del boccone, sia sulla sua odorosità carneo-ittica; mentre la leggerissima amaricatura della sorsata viene accolta e ammansita dallo stesso tessuto carboidratico dell’involtino: al quale, in questo round, non aggiungiamo il condimento.
CON LA SAISON
Si passa, con “Birra Busalla” (Savignone, Genova), a una più vigorosa Saison, la “Pepa”. Più vigorosa non tanto nello stacco etilico (siamo a quota 5), quanto piuttosto nella costruzione: la quale, oltre al lievito selezionato per la tipologia (più fruttato e più attenuatore, cioè incline a conferire secchezza palatale), prevede l’impiego di spezie in conferimento diretto, per l’esattezza coriandolo e pepe nero. Nell’approccio al boccone, abbiamo qui ancora più incisività: sia sulla sua trama amidaceo-lipidica sia sue sulle olfattività suine e salmastre; mentre l’assenza di amaro nella sorsata spinge a eseguirne la prova sull’involtino anche dopo averlo leggermente cosparso di salsa: quest’ultima tende, sì, a prevalere, ma nel “contatto” non ci sono conflitti a carico delle componenti sapide e piccanti del condimento. Test interessante.
CON LA DUBBEL
Pensato appositamente per “tentare la scalata” alle vette sensoriali della nostra guarnitura (preparata, lo ricordiamo, con zucchero di canna, aceto di riso e peperoncino) è, invece, il terzo abbinamento che proponiamo. Quello con una Belgian Dubbel, la “Abbey” targata “La Spezia Brewing Company”, improntata a un profilo decisamente maltato, rotondo e, a tratti, abboccato. Con la sua gradazione (7.2) e la sua bollicina, questo calce dal colore ramato assolve i compiti di riordino del palato tanto diligentemente quanto le due birre precedenti; certo, la sua densità sensoriale tende a prevaricare su quella dell’involtino in sé: ma è appunto il corpo a corpo con le abrasività della salsa (sapida, piccante, acida) a esaltare, della sorsata, le doti “diplomatiche” in termini di levigatezza e (dosata) zuccherinità. Connubio curioso e divertente!
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