di Titti Casiello
Non solo risaie delle pianure di Novara e Vercelli, ma questa terra che guarda alle Alpi, è piena di perle sottaciute. Come quella custodita da Carema, piccola enclave del Canavese, a due passi dalla Valle d’Aosta.
“Quadragesimum lapidem ab Augusta Praetoria” ovverosia “a quaranta miglia da Aosta”, questa, infatti, l’etimologia di Carema, che acclusa amministrativamente al Piemonte, della Valle d’Aosta ne prende però tutto il suo fascino montano. Eppure qui i confini condividono e non dividono ed è in questa “linea di con-giunzione” che a Carema spetta soprattutto il compito di custodire il Picotendro e il Pugnet, due cloni di Nebbiolo che si stagliano su un reticolo di terrazzamenti arroccati, disegnando, tra i pergolati di vigne, anche il profilo stesso del piccolo centro urbano del paese. E su quel reticolo l’aria pare arrivare tra i pertugi della montagna, passare per salite ripide e poggiarsi, poi, su vigne nate letteralmente sopra le frane: micro fazzoletti di terra strappati alla montagna e sui quali faticosamente si poggia il tipico sistema di allevamento a pergola.
Il lato positivo è che quest’aria non deve fare neppure un giro immenso, perché Carema è larga poco più di 20 ettari, cioè poco meno di unghia della proprietà di una sua vicina azienda langarola o poco più di un cru di Barolo. Ma qui le Langhe sono lontane anni luce e non per confini territoriali, ma per mentalità, qui il Nebbiolo non urla, ma bisbiglia, non si pavoneggia, ma si nasconde in vicoli stretti e si perde tra quelle montagne arroccate. E forse, a pensarci bene, se qui non urla, una ragione ci sarà: la viticultura a Carema non è, davvero, un gioco da ragazzi. I produttori complessivi dell’intera denominazione sono solo otto, e se manca un nono, figuriamoci poi un decimo, la ragione è presto detta: Carema è come quella bella donna che tutti la vogliono e nessuno la prende. Gli otto produttori passano su e giù per quella montagna, da un vigneto ad un altro, da un fazzoletto di terra ad un altro, ogni giorno, tutti i giorni. Trattori? Inimmaginabili in queste terre e magari uno di loro potrebbe anche avere mille metri di vigneto, ma sono tutti suddivisi in micro particelle, ed è più il tempo che si “perde a raggiungerle che a fare i lavori” così Ferrando, azienda storica di Carema e caposaldo della Denominazione, stimò, qualche anno fa che “se nelle Langhe ci vogliono 500 ore di lavoro per coltivare un ettaro di vigna, a Carema ce ne vogliono almeno 2.000”.
Va da sé che a questi ritmi, anacronistici anche per l’economia dei tempi moderni, quelle terre si sono ridotte anno dopo anno: negli anni ‘50 Carema vedeva, infatti, il suo splendore con all’attivo 64 ettari vietati, ma poi il 2014 ha segnato il picco del Nasdaq e del Dow Jones con appena 13 ettari. La chiusura dello storico stabilimento della Fiat, poi quello dell’Olivetti e il progressivo pellegrinaggio della comunità alla ricerca di nuovi impieghi, ha dato, poi, la spinta finale all’ abbandono dei vigneti e, alla fine, Carema pareva essere destinata a un Paese per vecchi. Eppure 15 anni dopo dall’uscita del film dei fratelli Coen, anche Carema ha avuto il suo affrancamento, sfiorando quota 19,5 ai tempi in cui si scrive. E chi se non la giovane manovalanza poteva sostenere e far rivivere un’agricoltura così impervia? La manna dal cielo è stata, infatti, l’arrivo degli under 40, con gli energici e passionali “Giovani vignaioli canavesi”, questo il nome, di quel collettivo di ragazzi che a gamba tesa, ma con la testa sulle spalle, si è inserito nel solco di una storia enologica che aveva visto, nel suo storico, solo le pagine scritte da Ferrando e dalla cooperativa sociale del paese. Così Monte Maletto, Sorpasso e Chiussuma i primi produttori che, nel 2016, hanno rivendicato, la Doc, dopo 50 anni di “egemonia”. E tra queste pagine, tutte degne di un’orecchia al foglio o di una sottolineatura, ecco quelle scritte da Gian Marco Viano, classe 1986, alias Azienda Agricola Monte Maletto. Ma come per gli altri, anche per questa azienda risulta difficile parlare di ettari e di proprietà, dislocate qua e là e su e giù su quella grossa roccia morenica. Eppure, come le altre, anche quelle di Gian Marco sono tutte “vigne estetiche”: con una bellezza ragguardevole regalata da quelle “colonne di pietra inghirlandate di vigna” così Mario Soldati descriveva, infatti, i pilun, quelle tipiche colonne tronco-coniche in pietra e calce che fungono da sostegno alle pergole di vigna terrazzate. Una citazione, quella di Soldati, non utilizzata a caso, ma che anzi si pone come preludio per descrivere la filosofia stessa di Gian Marco perché di questa terra, questo giovane vignaiolo, pare aver assunto le sue stesse fattezze. I suoi vini, ancora silenti al grande pubblico (ma per poco) si fanno portavoce del suo essere, schivo e in disparte, e alla fine a parlare, senza mai urlare, sono le sue etichette.
Sul fronte della bottiglia, in bella vista, infatti, le linee di un volto noto, che a non saperlo riconoscere potrebbe assomigliare a Corto Maltese, ma a trovare una connessione con questo luogo non ci si può sbagliare e riconoscere i lineamenti di chi, passando per queste terre, ricordò che, in Italia “tutto ciò che ha un titolo, un nome, una pubblicità, vale in ogni caso molto meno di tutto ciò che è ignoto, nascosto e individuale”. Era Mario Soldati che parlando del sottotono cui si concedeva Carema al pubblico ne apprezzava la sua grandiosità. Quella stessa grandiosità che Gian Marco dimostra nei suoi vini che parlano di Monte Maletto costola delle Alpi che protegge Carema. “Ho affidato la mia etichetta a un artista di Torino, Francesco Tabusso, che è stato in grado di esprimere appieno ciò che volevo, quei lineamenti mi ricordano moltissimo anche quelli di mio padre, venuto a mancare proprio nell’anno in cui è nata la mia azienda. E’ stato un po’ una sorta di commistione tra un padre del vino (Soldati) e un padre reale (il mio)”. Ma perché proprio Carema? “Per andare a lavorare all’Hotel Bellevue a Cogne partivo da casa mia, ad Ivrea, e passavo da qui tutti i giorni. E’ stata la mia ultima esperienza da sommelier, prima ho lavorato in Scozia, poi due anni a Londra, poi uno a Villa Crespi. Ma poi ho deciso di fermarmi, e di iniziare una vita meno stellata, forse più normale. E Carema mi è sembrato un buon posto dove fermarmi. Era il 2014 passavo di qui durante la vendemmia, e qualcuno stava per cedere una vecchia vigna. Alla fine l’ho preso io in affitto. Sono partito da mezzo ettaro e ne sapevo ben poco, non sono né agronomo, né enologo, ma tra amici e vicini di vigna ho formato le mie basi e dopo un anno, nel 2015, la mia prima bottiglia. Non è stato facile recuperare quei vigneti e non è facile neppure oggi fare il vino, ma è tutto molto gratificante”.
“E’ come se Carema stesse vivendo una vita 2.0. C’è molto appeal per i vini del nord Piemonte. Il surriscaldamento globale sta regalando, purtroppo, vini spessi e strutturati, in contro tendenza con il nuovo gusto commerciale e l’Alto Piemonte che da sempre, produceva vini troppo snelli, a volte fin troppo acidi, oggi di contro, si sta arricchendo di un po’più di frutto e sostanza, in un equilibrio che da Gattinara, fino a Lessona arrivando per Carema, è sempre più in crescendo”. Ma se tutto quanto sopra raccontato era doveroso, c’è da dire che la forza sorprendente dei vini di Monte Maletto non sta nel sacrificio, né nella difficoltà di fare vino in questa terra, né nelle ostilità, né nella fatica. Ci si può affaticare una vita intera d’altronde e non raggiungere in ogni caso un obiettivo. La forza sorprendente di questi vini sta, invece, nell’incredibile capacità che questi hanno di rimanere impressi nella memoria, non capitando, infatti, sovente, almeno per degustatori seriali, di svegliarsi il giorno dopo e continuare ad avere una voglia irrefrenabile di un calice di Carema. Voglia, questa, che potrebbe manifestarsi anche prima del caffè.
La degustazione
Battito del Maletto 2015 – Vino rosso
Il primo anno di imbottigliamento vede appena 552 bottiglie prodotte da vigne non ancora registrate nel disciplinare di Carema, da qui quindi la semplice menzione di Vino rosso. “In quell’anno produssi appena 675 litri. Non avevo neanche la materia prima per poter pensare di utilizzare una botte grande e così acquistai delle vecchie barrique esauste dalle Langhe e poi qui le cantine sono talmente piccole che è un’impresa quasi impossibile far entrare una botte da 500 hl”. Ed è questo, per intenderci, quel calice che potrebbe arrivare prima della voglia di caffè. Perché questo calice è gioioso e giocoso. E’ il suo frutto e le sue acidità. E’ sostanza e dinamicità al palato. La verità è che vini come questo ci fanno ricordare che dovremo ricominciare a conoscerci davanti a un calice in incontri schietti, profondi e penetranti come il sorso di un calice di Battito di Maletto 2015.
Sole e Roccia 2018 – Carema Doc
Vino centrato sulla classe e l’eleganza. Sofisticato è, infatti, il suo naso che trova nel fiore appassito e nel sottobosco il suo principale descrittore. La voce di questo vino viene addolcita simultaneamente da una trama tannica gentile e dagli aromi di gelso e more in retronasale uniti a una leggera speziatura tostata. Ciò che più sorprende sono le sfumature di cui la beva si caratterizza, impercettibili e minuziose sensazioni, che fanno la notevole grazia di questo vino.
Sole e Roccia 2019 – Carema Doc
“Al mio papà e al mio amico Gianni”, questa la dedica di Gian Marco per il suo Carema 2019. Per il quale, nonostante la giovane età, l’analisi olfattiva non assume affatto una serena marginalità, ma, anzi, sa già dipanarsi in aromi di pepe, spezie e unguenti balsamici. E nel suo sorso c’è tutto il gusto del vino, articolandosi in una valida progressione tra sfumature agrumate e di melagrana. Forse non si nasce appassionati di Carema, ma poi la incontri, la conosci e te ne innamori.