di Titti Casiello
Poderi Marcarini, Fratelli Alessandria, Fontanafredda, Borgogno, Oddero. Cos’hanno in comune questi grandi nomi del vino?
Sono cinque dei dieci produttori che raccontano, o che vengono raccontati, nel nuovo libro di Armando Castagno “Alle radici del Barolo” edito da Slow Food Editore. Duecentoventuno pagine che affidano l’introduzione storica alla penna attenta di Lorenzo Tablino e alle immagini parlanti del fotografo americano Clay McLachlan. Non un libro sul Barolo, ma nel Barolo, portando il lettore a ripercorre i tempi delle Langhe, attraverso le aziende che ne hanno tracciato i primordiali confini territoriali in un’Italia appena unita. 1865 è, infatti, la prima produzione documentata di un Barolo prodotto esclusivamente con uve nebbiolo, per una Doc che arriverà, poi, solo nel 1966. Tempi null’affatto gloriosi quelli, e ben lontani, di sicuro, da oggi che vedono il Barolo come un Ringo Starr del vino. Ed è in questo lasso temporale che l’autore ripercorre fasti e nefasti, in un lungo racconto più di pancia, che da manuale didattico. Lo fa attraverso parole, che per quanto intrise di nozioni, fanno trasalire, nella mente di chi legge, quella stessa polvere che ha avvolto le bottiglie di Albeisa e delle quali, Castagno, da tracce di degustazione nel suo libro.
E’ una narrazione veritiera. Sia del Barolo di ieri nella quale lo scrittore smantella i suoi connotati aurei, tra i ricordi di povertà di quella terra e le difficoltà di vendere un vino che nessuno voleva, sia di quella di oggi, dove, a tratti, si avvilisce per un Barolo, che a volte, è costretto ad assumere le vesti di un giullare in favore del mercato. Ma è, soprattutto, una narrazione emotiva e sentimentale nella quale tesse le fila di un vino frutto di persone e di un luogo. Così, in centro a La Morra, Castagno incontra l’azienda Poderi Marcarini. La cui storia è oggi di Elisa, Andrea e Chiara, figli di Manuel Marchetti e della compianta Luisa Marcarini, e il cui passato ricorda come “il celebre notaio Marcarini [..] fu [..] tra i primi a rivendicare il nome di un cru, Brunate, a partire dalla vendemmia 1958”. Nel libro il calice si riassume in un Barolo Brunate ‘99, nel nostro – in una degustazione tenuta dall’autore al Castello di Taurasi in occasione della presentazione del libro – in un Barolo Brunate 2008 che sa finemente di mirto e accompagna all’unisono, tannini, acidità e sapidità in un retronaso di scorza di arancia e minerale. Simmetrico.
A Verduno, invece, l’incontro è con Fratelli Alessandria. “La pagina più bella di questo libro è senza dubbio la 123” dice l’autore. Inizia così: “Le radici del Barolo sai dove sono? Sono nella fragilità. [..]nella precarietà di queste vicende di famiglia: non è una storia d’amore quello che è successo nelle colline qua fuori [..]. Penso spesso a quelli che dicono “io voglio tornare a fare il vino come mio nonno”; devi frenare la lingua per dirgli che, se fossero vivi, nonno e bisnonno gli mollerebbero due schiaffoni, dicendo “svegliati!”, dicendo “quei periodi, il modo in cui andavano davvero le cose, non li hai conosciuti, altrimenti non diresti così”. Ed è un Barolo Monvigliero 1978 che beve con “infantile entusiasmo” insieme a Vittore Alessandria e alla sua famiglia, lo stesso entusiasmo che concede anche al Barolo Monivigliero 2015 che non perde, neppure in questo millesimo, il piglio di cui, da sempre, si connota questa sensibile vigna. La sensazione è che Verduno sappia stare su un piedistallo, camminare leggero e poi dribblare con velocità fulminee nel palato. Pare che lasci tutto nello status quo ante, se non fosse, che, oggettivamente, dopo un sorso di Monvigliero, nulla può essere come prima. Forse te ne accorgi solo quando alla fine, anche un po’ sbigottito, senti il sale che ti accompagna in una bocca completamente entusiasta. Lindo.
Per le radici di una storica azienda come Fontanafredda l’incontro, invece, è a Serralunga d’Alba dove “la storia è nota. Anno 1847”. Un aggettivo e un tempo che anticipano, di un ventennio, l’inizio di un’Italia unita. Ma nell’aria, in quell’anno, c’era, già, l’Inno di Mameli eseguito, per la prima volta, davanti a un gruppo di patrioti provenienti da tutta Italia. Oggi la proprietà è in mano alla famiglia Farinetti, mentre la prefazione delle tenuta fu, invece, di Emanuele Alberto di Mirafiore, re di Sardegna. I racconti storici, nel libro, si sovrappongono ad osservazioni asciutte e ironiche lasciando nel lettore, anche, appunti della Langa di oggi: “ieri sera abbiamo fatti l’aperitivo lirico con ospiti americani. Funiculì Funiciculà. Nelle Langhe.” “Esatto” si, è la musica che vogliono sentire”. La traccia di degustazione sta, invece, in un Barolo Fontanafredda del ‘67 “propriamente un inno al Barolo”, nel nostro, invece, in un Barolo 2016 chiaramente troppo giovane, ma con i già preannunciati attributi di classicità tra aromi di genziana e te rooibos, e poi in un Barolo Riserva 2005 di Casa E. Mirafiore (di proprietà sempre di Fontanafredda) che spiega le radici tra note fumose e piene ancora di resistenza olfattiva, ma non di particolare ampiezza. E quella stessa resistenza non lascia neppure il sorso, mostrandosi ancora fresco e agile e di media persistenza.
Finalmente, l’autore arriva dove le radici del libro partono, nel piccolo comune di Barolo. E’ da Borgogno che il racconto prende le sue mosse. La cui fama, mai servisse una certezza, trova una data precisa, 1861: al tavolo celebrativo dell’Unita d’Italia, veniva servito un Barolo Borgogno. Oggi tutto ciò pare un po’ stonare con le attuali tavole della sala degustazione della tenuta tra un “cappello di paglia con nastro nero marcato Borgogno [..] e cartelli stradali alla londinese fissati ai muri [..]”, ma ad onor del vero, tutto risulta perfettamente in linea con le continue richieste di souvenir di chi arriva qui e vuole ricordare di aver visitato un pezzo di storia. Ad ogni modo un capolavoro se tale è, tale rimarrà. E nel libro il capolavoro è materia liquida del ’82 e poi del ’61, difficile da descriverlo, anche per l’autore stesso, tanto che è “strabiliante”. Nel nostro calice il racconto sta, invece, in un Barolo Liste 1996 dove olfatto e gusto si separano lasciando al naso pezzi di radici di liquirizia, di cenere e di note brulè in un’ indizio di decadenza, e concedendo al palato ancora tanta ampiezza tra rantoli di ferma acidità.
A La Morra l’autore termina il suo viaggio, da Oddero con i racconti di Mariacristina, figlia di Giacomo: “Mio padre è un po’stanco”. E’ del 1926. Nel libro si racconta di un Barolo 1964, in una degustazione che fa da sfondo ad una foto di pari anno che immortala il parroco di Santa Maria a controllare la pesa di quelle stesse uve del suo calice. “E cosa ci fa il parroco con le uve? Chiedo io. Il garante [..]era in diretto contatti con … e indica lassù col dito.” Il nostro è, invece, un Barolo Riserva Bussia Vigna Mondoca 2013 che accompagna nei ricordi l’odore intenso e dolce di una caramella Rossana e note officinali, in un palato intransigente giocato nel finale tra la cola e la liquirizia.