di Simone Cantoni
Per la serie “Non voglio che sia facile, ma che ne valga la pena”, sul fronte degli abbinamenti in tavola, puntiamo stavolta lo sguardo verso su un terreno di sfida (appunto) complicato, per la figlia dei cereali: la birra è infatti chiamata a cimentarsi con il tema delle carni.
Ovvero un argomento sensoriale in merito al quale il vino (specie il rosso, ad accompagnare le polpe d’identica designazione cromatica) vanta secoli di esperienza e di comprovata efficacia, come ampiamente attestato dall’altrettanto copiosa e longeva letteratura di genere. Ma a noi piace scommettere: ancor di più quando l’azzardo implica il confronto indiretto con standard elevati e consolidati. Ed è piaciuto anche ai promotori della serata nel corso della quale è andato in scena questo gustoso laboratorio brassi-gastronomico. Due realtà livornesi, rappresentate dai rispettivi deus ex machina: Pierluigi Chiosi, contitolare e responsabile sala cotte del Piccolo Birrificio Clandestino (che ha ospitato l’iniziativa, nel suo locale di somministrazione, annesso all’impianto produttivo, in via Cimarosa, 37; mettendo in campo quattro etichette della propria ampia gamma); e Daniele Rastrelli, proprietario della macelleria L’angolo della carne (in via di Montenero 195/A), nonché autentico cultore della materia, un ricercatore che (insieme al compagno di strada Ciro Donnarumma) esplora giorno per giorno le novità in tema di tecniche d’allevamento, selezione delle razze e pratiche di frollatura.
L’appuntamento – una cena-degustazione con assaggi guidati, dal titolo (didascalico, ma efficace) Birra e carne: stasera “ciccia” – si è svolto secondo la formula dei quattro round di abbinamento, nel contesto di un menù (più o meno) classico: antipasto; due portate centrali più impegnative; e infine il dessert. Quest’ultimo (ed è la ragione di quel più o meno appena sottolineato) esso stesso a base di carne: curiosità che ha riscosso piacevolmente l’interesse dei partecipanti. Ma stop alle fughe in avanti… Andiamo con ordine e diamo conto, con disciplina cronologica, di ciascuno dei quattro match.
Primo servizio: sul piatto un carpaccio di bovino marinato agli agrumi; nel bicchiere la Goslar 1826, una Gose della tradizione sassone: prefermentata con batteri lattici e aromatizzata con sale, semi di coriandolo, più, nella fattispecie (tocco di personalizzazione), una manciata di bergamotto in scorze. Sorsata vibrante e diretta (4.5% appena la gradazione), la birra presenta un colore paglierino carico, dall’aspetto velato e dalla schiuma sottile; un naso fresco (panificato da lievito madre, yogurt, agrumature); una bocca costruita attorno alla godibile filigrana lattico-citrica, la cui corrente attraversa l’intero iter gustativo, assicurandone gli equilibri a fronte della rinuncia ai contributi amaricanti del luppolo. La stessa filigrana lattico-citrica la cui vena affilata sposa (andando in sovrapposizione attenuativa) quella, analoga, espressa dalla carne cruda (condita con appena qualche goccia d’olio o di limone): generando, con ciò, armonia palatale; ed esaltando le aromaticità fresche sia del bicchiere sia del piatto, quest’ultimo segnato da un’odorosità animale tanto nitida quanto esente da sgarbatezze di sorta (ematiche o da stalla).
Seconda portata e cambio radicale di direzione: straccetti di pollo con marinatura alla birra; per la preparazione dei quali Daniele Rastrelli utilizza la Ri’appala ovvero la American Ipa del PBC, coi suoi 6.5 gradi alcolici e, soprattutto (eccolo, il punto di divergenza rispetto al round precedente), con la sua robusta amaricatura da luppolo: un autentico ribaltamento in confronto alle regole d’ingaggio del primo abbinamento. Così, in questo caso, si è indotti a puntare, per l’incontro in tavola, su una tipologia brassicola la cui natura è quella di una variazione sul tema della stessa American Ipa. Il Clandestino opta così per la sua Gatta Bianca, una White Ipa di contenuta taglia etilica (6%): colore paglierino carico, lievi e omogenee velature, schiuma bianca e tenace; profumi di panificato a breve cottura, frutta (pesca, uva spina), agrumi (pompelmo), fiori (achillea, bosso); condotta palatale morbida in avvio e decisamente bitter in chiusura, ma senza strappi nella transizione, anzi ben fluida, sebbene di matrice asciutta (carattere, questo, sottolineato dalla vivace bollicina). Un carattere, quello della luppolatura, che viene ripreso, grazie alla marinatura, dagli straccetti di pollo: sia in aroma (con effetti di coerenza tra masticazione e sorseggio) sia in amaro (con effetti, ancora, di sovrapposizione attenuativa); e se la (pur leggera) salatura della carne potrebbe dar luogo, con l’amaro stesso del contesto, a piccole zuffe, ecco la provvidenziale azione di disinnesco operata da un contorno di patate in purea, con la loro massa amidacea e grassa (apportata dal latte in cottura).
Terzo faccia a faccia: da una parte un elegante (e sostanzioso) pulled pork al piatto accompagnato da cipolle caramellate; dall’altra un’etichetta tra le ultime nate in casa PBC, la Munich Dunkel (con semplice indicazione dello stile, senza nomi d’arte), agile interpretazione (4,5% il dato alcolico) di un classico stile bavarese. Colore bruno pieno, aspetto pulito e schiuma beige, il suo arco olfattivo compendia i temi del panificato a lungo infornamento (dolce e non), del biscotto, della nocciola e della noce, ai quali unisce tocchi legnosi (matita) e speziati (semi di papavero); mentre la bocca (dal corpo leggero e dalla carbonazione pimpante) intreccia delicate correnti amaricanti (sia da malti scuri sia da luppolo) a un iter morbido in avvio e asciutto in chiusura. Nell’abbinamento, interessanti almeno tre punti: la pariteticità strutturale tra la compattezza della carne e la corporatura della Dunkel; il dato ricorrente di caramellizzazioni e crostificazioni (da reazioni di Maillard) che accomuna carne, birra e contorno; la dolcezza delle cipolle che attenua tanto la sapidità del maiale, quanto la spinta amaricante del bicchiere, rendendole reciprocamente compatibili.
Ultima tappa: il meet-cake; ovvero un dessert multistrato con alla base una tartare di bovino; un nucleo centrale di formaggio tipo quark ben compatto (grasso, latteo e neutro); una salsa di frutti di bosco per guarnitura. Ad annaffiare l’originale ricetta, una tra le ammiraglie (per potenza) della flotta PBC: con i suoi 10 gradi, la Montinera Winter, edizione stagionale della primigenia Montinera; il cui genoma da Imperial Stout (con vaniglia e zenzero) si arricchisce, in questa versione speciale, degli apporti del lampone, tanto da dichiarare un’identità tipologica da Raspberry IRS. L’identikit? Eccolo. Color mogano, aspetto impenetrabile, schiuma cappuccino: insomma, un’iconografia da protocollo; il naso contempera le vigorose torrefazioni (caffè, orzo in tazza) e le salde speziature (liquirizia, rabarbaro, oltre quelle in aggiunta diretta) con slanci etilici di stampo liquoroso e con carnosità da frutto, sia disidratato (prugna) sia boschivo (la ciliegia, accanto allo stesso lampone). Poi la sorsata: voluminosa e calda, intessuta a sua volta di torrefazioni (le stesse espresse alle narici) rese morbide da zuccheri residui e alcol; dotata di un avvio abboccato e di un finale snello, se non ancora asciutto. Nell’assaggio in contemporanea con il dessert, efficace la gestione della materia lipidica operata dalla birra (con la sua gradazione e la pur delicata carbonazione); e bello l’intreccio delle sue olfattività con quelle consanguinee espresse dal dessert.
Piccolo Birrificio Clandestino
via Domenico Cimarosa 37/39 – Livorno
info@piccolobirrificioclandestino.it
t. 0586 854439
Macelleria L’angolo della carne
via di Montenero 195/A – Livorno
daniele@angolodellacarne.it
t. 342 7768219