La minestra coi tenerumi, si sa, è piatto estivo siciliano. Tipicissimo. E un po’ rispetta il nostro carattere, il carattere dei siciliani, notoriamente falsi amici della contentezza. Innanzitutto non viene chiamata minestra, ma pasta, come se fosse asciutta, benché ogni tentativo di eliminare da essa il brodino succoso, ricco di mineralità e sapidità, come dire meravigliosa freschezza, si sia sempre rivelato perdente, carico di accigliate perplessità. Oggi la si presenta coi frutti di mare, tiepidina e gourmet; ma i puristi, perplessi, la bocciano all’unanimità, perché la pasta coi tenerumi, da che mondo è mondo, va mangiata nature, con gli spaghetti spezzati, una spruzzata di pomodorini e poco aglio e basta, comunque caldissima, bollente. Più fa caldo, più tira lo scirocco e saltano i condizionatori, più la pasta coi tenerumi deve essere gustata a temperature sahariane senz’oasi possibili. Non sarà bello dirlo ma sudarci dentro – il famigerato, biblico sudore della fronte – fa parte del rituale: perché è un vero e proprio rituale, arcaico e persistente, quello del mangiare i tenerumi in calzoncini e canottiera o anche – che è lo stesso – in raffinato completo di marmoreo lino e panama d’ordinanza. Basta vivere la basica continuità fra il calore scottante della minestra nel piatto e l’afrore appuntito dell’aria circostante.
Ma i paradossi non sono finiti. C’è come un culto della pianta di tenerumi (tenerezze, le chiamano in alcune zone della Padania, forse cogliendone il senso e il valore), una pianta che conta più per le foglie profumate che per il frutto, quella zucchina affusolata che sa tanto di vecchia zia: la quale, superate le caldane, la sera, d’estate e non, preferisce mangiare in bianco. Gli emigrati, quella pianta, l’hanno portata dappertutto, dal Venezuela al New Jersey, da Toronto a Buenos Aires, ma senza risultati di spicco: più che per il sapore, la foglia della zucchina lunga era venerata oltreoceano per la nostalgia del paesello lontano. Di fatto in Italia, oltre lo Stretto, non la coltiva nessuno: più che per ragioni climatiche, per indolenza culturale, disabitudine atavica. Non è questione di terreni o di palato, ma di cervelli e di valori: le tenerezze, da quelle parti, sono tutt’altro. E non a ragione: in India e in Pakistan, guarda caso, la si trova dappertutto.
Ancora: perché cavolo i siciliani usano i tenerumi solo nella minestra? Potrebbero farne altro, venerarli con ulteriore gourmandise. Ma niente: si invocano ragioni materiche, resistenze e debolezze vegetali. Ma qualunque cuoco decente, se ben stimolato, ne farebbe faville. E allora, per chiudere, un problema di consistenza, di qualità sensibili della materia prima. Come descrivere a parole la pasta coi tenerumi? Nella sua estrema semplicità, è cosa indicibile. Come tutte le minestre, più di tutte le minestre. Acquosità, profumi, texture… Qualcuno ha detto che si tratta di una pietanza “annacusedda”. La solita arte di annacarsi? Perché no? La sensualità dei tenerumi forse ricorda quelle signorine tanto riserbate quanto curvilinee che, secondo quel maestro di antropologia che era Vitaliano Brancati, suscitavano al loro passaggio un commento unanime (“talia!”) che era un interrogativo metafisico (“talia?”). Quand’è che torniamo a parlare d’eros e cucina?