L'affinamento e la straordinaria longevità dei bianchi scoperti grazie a Sebastian Stocker che faceva sparire i bianchi per provarne la sfida col tempo
di Francesco Pensovecchio
L'Alto Adige è una regione che puó riservare inaspettate sorprese. Alcune importanti lezioni (e gioie) sul vino mi sono state impartite proprio qui, in un arco temporale dilatato.
Tanto per dirvi l’ultima, scopro che dietro il successo di una cantina c’è la convinzione caparbia di un uomo che ha creduto nel suo territorio, nei suoi collaboratori, nelle sue idee, in se stesso, difendendo il proprio punto di vista senza risparmiarsi e senza esclusione di colpi, se del caso, sottraendolo a logiche miopi inclini a preferire utili modesti ma immediati.
L’ho capito in due verticali guidate presso il Merano Wine Festival e una visita in cantina. Insieme a questa, m’è arrivata un’altra grande lezione: alcuni vini bianchi possono invecchiare 50 anni, e non necessariamente vini della Mosella o del nord Europa, ma vini italiani la cui tecnica di vinificazione è l’elemento decisivo. La cantina è la Cantina Sociale di Terlano.
Bene, il nostro eroe si chiama Sebastian Stocker. Il suo nome campeggia sopra la porta del preziosissimo caveau della cantina sociale, le cui celle raccolgono vecchie annate a iniziare dal 1955 sino al 1993. Il suo metodo è diventato uno standard, appunto il “Metodo Stocker”.
Quest’uomo, differentemente da vari consiglieri e soci della cooperativa per i quali lavorava come Kellermeister, il capo cantiniere, ebbe una visione lungimirante: lasciare i vini sur-lie per tempi lunghi, non meno di 8 anni. Botte grande da 100 ettolitri poi in fusti d’acciaio da 2.500 litri, anche per 30 anni! Infine, ulteriore affinamento un affinamento in bottiglia di altri 4 anni. Non è finita qui. Stocker, le bottiglie, le nascondeva. Folle ma vero. Creava dei nascondigli e le occultava, sotto o dietro le botti grandi, costruendo delle intercapedini nei muri nelle quali far scomparire delle bottiglie e sottraendole al commercio. E’ ancora recente il ritrovamento di uno dei suoi nascondigli, in cantina peraltro non escludono che qualcosa possa essere in futuro rinvenuto. Posso solo immaginare la sorpresa e il disappunto dei conferitori nell’apprendere dei ritrovamenti. Chi ha la testa quadrata, e i tirolesi ce l’hanno, deve essere andato su tutte le furie.
Bugie? Si, ma a fin di bene. Cosa sarebbe oggi Terlano senza queste bellissime rarità e senza avere scoperto l’incredibile potenziale di affinamento di questo terroir altoatesino? I vino sono longevi, complessi, hanno carattere. I 143 soci attuali coltivano 165 ettari di vigneti, pari a una produzione annua totale di 1,2 milioni di bottiglie, quasi tutte con un eccellente potenziale di affinamento. La visita in cantina vale il viaggio. Il vino della svolta è il Pinot Bianco Vorberg. Vorberg è il nome di un vigneto di 10 ettari sopra Terlano rivolto a sud e la cui pendenza è tra il 20 e il 60%, mentre l’altitudine è compresa tra 500 e 900 metri. Il suolo è porfido quarzifero. Le rese sono molto limitate, circa 1 kg per pianta. Giovanissimo ed esuberante nei primi anni, esprime sentori di frutta a polpa bianca e pasticcini alla crema. La bocca è piacevole e rotonda, mentre nelle annate vecchie è esile, cristallino, elegantissimo.
Le due verticali sono state condotte da Rudi Kofler, attuale enologo della cantina (la sua prima vinificazione è del 2002, un’annata bella, difficile e parzialmente con botrite) e dal direttore Klaus Gasser.
Le annate degustate alle verticali, 2011, 2010, 2009, 2007, 2006, 2005, 2004, 2002, 2001, 1999, 1997, 1993, 1987, 1980, 1979, 1971, 1966 e 1956, mentre il 2012 e il 2013 sono stati da me assaggiati durante la visita in cantina. Raccontarle non serve. Sono istanti e sensazioni che devono essere interpretati, più che dal naso e dalla bocca, dalla pancia.