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Birra della settimana

Tutto (ma proprio tutto) sulle Italian Pils

16 Marzo 2025
Le Italian Pils Le Italian Pils

L’’Italian Pils conquista lo status di tipologia birraria ufficiale: univocamente riconosciuta come tale; e univocamente riconosciuta come frutto dell’estro tricolore. Un’altra tappa importante nella costruzione di un costume birrario tipico nel nostro Paese. Il quale, certo, sul piano del bagaglio storico, non può competere con le tradizioni delle grandi scuole internazionali: la belga, la mitteleuropea, la britannica e la statunitense. Ma, insomma, nello scrivere un romanzo, da qualche parte bisognerà pur partire. E lo stesso esempio della scuola made negli Stati Uniti, appena riportato, dimostra come una simile operazione – la creazione di un nuovo classico – possa riuscire in tempi imprevedibilmente brevi; basta considerare come la nozione corrente di cultura brassicola americana corrisponde a quanto, sotto la bandiera a stelle e strisce, è accaduto dalla metà degli anni Settanta in poi: prima con l’entrata in scena dei nuovi luppoli (una genealogia inaugurata da Cascade, Centennial e Columbus), poi con la nascita della Association of Brewers, ovvero quella santa alleanza tra consumatori appassionati, homebrewers e piccoli produttori, che è stata innesco ed elemento propulsore della rivoluzione artigianale.

I FATTI DI CRONACA
Ma chi ha canonizzato la Italian Pils come tipologia ufficiale? Ebbene, nientemeno che la stessa Association of Brewers. Che nel frattempo (correva il 2005) è diventata Brewers Association (BA); e che – in quanto promotrice o madrina di una quantità ci concorsi birrari (tra cui la Word Beer Cup, la massima competizione mondiale in questo settore) – è impegnata nel pubblicare, anno dopo anno, un suo libro mastro dei disciplinari stilistici: le BA Styles Guidelines. La cui edizione 2024 include, appunto, la consacrazione della categoria Italian Pils; una novità che la stessa organizzazione statunitense ha annunciato, dedicandole grande risalto, nel comunicato stampa diffuso appunto urbi et orbi per lanciare la notizia dell’uscita delle Guidelines nella loro versione fresca d’aggiornamento. Insomma, per questa nostra birra, un’investitura con tutti i crismi…

ITALIAN PILS: OVVERO?
Sotto il profilo sensoriale, il paragone più prossimo è quello con una German Pils. Ovvero una birra chiara, di tinta fra il paglierino e il dorato; con note nasali di panificato a breve cottura, prato falciato e fiori bianchi (tipiche dei luppoli europei tradizionali, boemi o tedeschi); e una bevuta segnata da una gradazione attorno al 5%, da un corpo leggero, da una bollicina briosa, da un finale secco, nonché da una chiusura nitidamente amaricata. Ecco, il punto di divergenza, rispetto alla versione tricolore è rappresentato, in quest’ultima, dall’impiego del dry hopping: la tecnica di luppolatura non in caldaia di bollitura (sebbene a fine processo, cioè il late hopping), ma addirittura in fasi successive e quindi a temperature più basse, al fine di estrarre, dai fiori del nobile rampicante, il massimo del loro potenziale aromatico. Insomma: un profumo qualitativamente in linea con quello delle Pils teutoniche; ma dotato, sul piano dell’intensità sensoriale, del potere di un… motore turbo!

L’ALBA DELLE ITALIAN PILS
Doveroso, a questo punto, ricostruire un po’ di storia della Pils nostrana. La cui apripista – la cui matriarca – è stata la Tipopils, tra le etichetta bandiera del Birrificio Italiano, fin dalla sua costituzione, per mano di Agostino Arioli, nel 1996 a Lurago Marinone, in provincia di Como (quella sede d’esordio è oggi locale di somministrazione: l’impianto di brassaggio si trova pochi chilometri distante, a Limido). In quel solco, un altro prodotto ha poi avuto il merito, alcuni anni più tardi, di dare un contributo decisivo al consolidamento dell’idea lanciata dalla Tipo. Ebbene, quel prodotto è stato la ViaEmilia: firmata dal Birrificio del Ducato (a Roncole di Busseto, in provincia di Parma); e generata dalla creatività di uno dei fondatori originari del marchio emiliano, Giovanni Campari (oggi impegnato in avventure nuove, lungo le strade dei distillati). Una visione, quella di Arioli e Campari, tanto lungimirante quanto frustrata, agli inizi; perché – sintetizzando brutalmente – il giudizio della comunità birraria tradizionalista era: birre buone, buonissime, però… non proprio Pils, in quanto troppo intensamente profumate.

IL TEMPO (A VOLTE) È GALANTUOMO
Il tempo però, a volte almeno, sa essere galantuomo. In fondo, è bastato cambiare prospettiva: quelle Pils palestrate in olfatto non rientrano nella casella organolettica di alcuna tra le Pils consacrate dai disciplinari classici? Ebbene, pensiamo a cucire loro addosso una dimensione tipologica su misura. Certo, tra il concepimento di un’idea e la sua realizzazione c’è spesso di mezzo il proverbiale mare. Per superare il quale c’è bisogno di una concomitanza di circostanze e iniziative. Magari da parte di chi, nel panorama artigianale planetario, è in grado di dare impulsi vigorosi abbastanza da mettere in moto meccanismi di revisione delle stesse categorie stilistiche. Inutile dire come attori del genere siano molto spesso appartenenti al panorama statunitense: operanti in un uno scenario interno che, in virtù dei suoi milioni di utenti, è non di rado laboratorio per dinamiche destinate ad assumere una portata globale. Succede, in sostanza, che due personaggi eminenti del movimento USA – Matt Brynildson (brewmaster della Firestone Walker Brewing Company, a Paso Robles, California); e Tim Adams della Oxbow Brewing Company, a Newcastle, nel Maine) – si lasciano conquistare dall’aitante personalità di quelle Pils del nostro Stivale, così mediterraneamente esuberanti; ne recepiscono lo spirito e lo applicano a due rispettivi prodotti: nascono in questo modo la Pivo Pils, lanciata nel 2012 dal marchio della West Coast; e la Luppolo, battezzata come tale nel 2016 dal brand della Costa Est. La miccia era accesa, insomma: c’era soltanto da attendere e da verificare se avrebbe dato luogo a un filone stilistico stabile e non a una stagiona effimera. È andata nel modo migliore: e oggi l’Italian Pils è santificata a tutti gli effetti…

IL DISCIPLINARE DELLA BREWERS ASSOCIATION
Chiudiamo riportando (in una nostra traduzione meno tecnicistica) quanto risulta, sotto la voce Italian Pils, appunto nell’edizione 2024 delle Linee Guida pubblicate dalla Brewers Association. Colore: dal giallo paglierino al dorato. Aspetto: la massa liquida dovrebbe essere limpida, non attraversata da velature, neanche se legate alla bassa temperatura. Aroma e gusto: note maltate di timbro dolce (ad esempio sensazioni leggermente biscottate) avvertibili ma a basso livello; apporti del luppolo (da late hopping e dry hopping) intensi e percepiti in termini di tematiche varie e diverse (fruttate, floreali, pepate o altro ancora); tenore amaricante da medio ad alto. Profilo fermentativo: finale secco da buona attenuazione del contenuto zuccherino; assenza di esteri fruttati e DMS (sensazione da mais cotto, ndr). Corpo: di tessitura da leggera a media. Note aggiuntive: la schiuma dovrebbe essere densa, bianchissima e persistente; il carattere luppolato dovrebbe essere deciso, fresco e aromatico.

ALCUNI ESEMPI
Tra le molte interpretazioni di valore buono, molto buono e anche eccelso, reperibili sul mercato italiano, ne citiamo alcune a titolo di riferimento. Oltre alle già menzionate Tipopils e Viaemilia, abbiamo ad esempio la Luppululà del Birrificio Manerba (a Manerba del Garda, in provincia di Brescia); la 405040 di Rurale (a Desio, in provincia di Monza e Brianza); la Pils di Birra Elvo (a Graglia, in provincia di Biella); la Man Bassa del birrificio 50&50 (Varese); la Pils del Birrificio Clandestino (Livorno); la Testa di Malto del birrificio Legnone (a Dubino in provincia di Sondrio); la Palatia del Birrificio del Forte (a Pietrasanta, in provincia di Lucca).