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Birra della settimana

Storie di birra e formaggio: l’Inbriago, nato per caso e diventato una prelibatezza. E che abbinamenti

24 Marzo 2024
Formaggio Inbriago Formaggio Inbriago

In Italia, si sa, abbiamo con il vino un rapporto d’amore viscerale a tutte le latitudini e in tutte le regioni. Tra queste, un posto d’onore, nella classifica della devozione verso Bacco e il suo nettare, spetta senz’altro al Veneto. Eppure, nella storia di questo formaggio, chiamato “inbriago” (ovvero “ubriaco”) la passione per il bere c’entra poco. Piuttosto c’entra la presenza della filiera enologia come elemento tipico e strutturale del paesaggio, dell’insediamento umano. Eh sì, perché la specialità di cui ci apprestiamo a parlare – inclusa dalla Regione negli elenchi dei propri PAT (Prodotti Agroalimentari Tradizionali) – ha natali in assoluto piuttosto recenti: che rimandano alle vicende, drammatiche, degli anni in cui, anche la provincia di Treviso fu teatro dei combattimenti che opposero il nostro esercito a quelli di Austria e Germania, nel corso della prima guerra mondiale.

UN SACRIFICIO FORTUNATO
In particolare, durante la ritirata della truppe italiane dopo la sconfitta di caporetto (tra il 23 e il 24 ottobre 1917), sembra che nelle campagne della “Marca” posizionate sulla sinistra del Piave, le famiglie locali, pur di non lasciare il loro formaggio alla voracità delle truppe asburgiche e tedesche, avessero preferito nasconderlo sotto i cumuli delle vinacce: sì, proprio le bucce dell’uva che erano rimaste come residuo dopo la sua pigiatura e che erano ammassate in gran quantità, durante quelle settimane di vendemmia e vinificazione. Probabilmente – era il pensiero dei contadini – il formaggio (quel ben di Dio!) si sarebbe, sì, rovinato nel gusto: ma seppur cattivo, magari anche orribile al palato, meglio mangiarselo (e di fame ce n’era), piuttosto che consegnarlo al nemico. Il quale, c’era la speranza che non sarebbe andato a frugare proprio sotto gli strati di grappoli spremuti, maleodoranti di decomposizione e universalmente considerati soltanto materiale di scarto. Ecco, in effetti le cose andarono proprio così; anzi, non del tutto, ma per la parte più auspicabile e fortunata: nel senso che le preziose riserve di cacio furono salve; e addirittura, contrariamente alle previsioni, anziché deteriorarsi, la loro permanenza all’interno di quell’impensabile ambiente di maturazione le aveva perfino arricchite di nuove sfumature organolettiche.

UNA PROCEDURA, PIÙ CHE UN PRODOTTO
Dopo quel sacrificio sfiorato e trasformatosi in colpo di fortuna, la tecnica di “immersione” nelle vinacce (da cui il nome di “formajo inbriago” o “enbriago” o “imbriago”) è stata replicata, via via perfezionata e condotta al rango attuale di pregiata metodologia affinativa. Ecco, tra le peculiarità di questa specialità alimentare c’è che, nel suo caso, il processo di trattamento conta forse più che non la materia prima di partenza. La quale può essere costituita da diverse tipologie casearie: talvolta si lavora su prodotti appositamente preparati; talvolta su formaggi aventi vita propria (Asiago, Montasio, Latteria, Monte Veronese…) e poi successivamente destinati all’incontro con i resti delle uve. Si tratta comunque di paste semicotte ottenute da latte vaccino; prelevate non prima dei 2 mesi di stagionatura (ma si arriva a forme di 24); e maturate “in ubriacatura” con tempi variabili dagli otto giorni alle quattro settimane (in funzione della stagionatura stessa), facendo uso di apposite vasche e ricorrendo a vinacce di vitigni a bacca sia nera sia bianca (comunque non soggette a torchiatura). L’ultima fase del procedimento, dopo un’accurata opera di pulitura e asciugatura, consiste nell’esecuzione di una maturazione supplementare, dai 15 ai 30 giorni (anche qui, comunque, si può andare oltre): dopodiché si va alla messa in commercio.

IL TEMPERAMENTO SENSORIALE
Pur con tutte le numerose varianti, l’inbriago – il cui colore (paglierino o violaceo) cambia in funzione degli acini con cui è stato a contatto – sfodera un temperamento energico e perentorio. La consistenza va dal semiduro al duro; la materia lipidica non scende sotto il 20%, quindi ci si muove tra le categorie del formaggio semigrasso e grasso (se la percentuale è oltre quota 42); l’intensità aromatica elevata, con tematiche da latte cotto, burro, cracker, anacardo, frutta (le cui specifiche sono legate alle uve impiegate) e alcol; la densità gustativa ugualmente vigorosa, innervata di contenuti dolci, sapidi (proporzionalmente alla stagionatura del prodotto-base) e talvolta piccanti. Insomma, un bel caratterino. Da abbinare come? Con quali birre? Noi, lavorando su un “ubriaco” sotto vinacce di Cabernet Sauvignon, ne abbiamo messe alla prova tre, di altrettante diverse tipologie.

CON LA WEIZENBOCK
Si comincia con una Weizenbock: la “Weisser Bock” targata “Batzen”, marchio artigianale di Bolzano; un’interpretazione che, dello stile di riferimento, declina il paradigma nelle direzioni di un caldo colore ambrato e di una gradazione ancorata al limite minimo della propria fascia statistica (7-10%), anzi leggermente al di sotto, posizionandosi su un valore di 6 e 8. Eppure è quanto basta per massaggiare e sciogliere (in alleanza con la bollicina vivace e la briosa acidulità del frumento) la pur cospicua materia grassa del formaggio; formaggio la cui sapidità viene accolta dalla dolcezza carezzevole della sorsata; mentre i profumi dell’imbriago (cracker e nocciola da un lato, frutti rossi dall’altro) trovano un rispecchiamento non perfetto, ma molto ravvicinato, in quelli del bicchiere: miele e biscotto, banana e susina mature.

CON LA ITALIAN GRAPE ALE
Un balzo di 3 gradi e, oplà, si atterra sui 9 e 8: quelli della “Sabine” firmata “BiRen” (a Sant’Agostino, in provincia di Ferrara). Di base una Belgian Dark Strong Ale (bruno il colore), ma arricchita aggiungendo, a fine bollitura, del mosto di vino cotto, localmente detto “Saba”, da cui il battesimo della birra. Il suo profumo (recante note da calotta di panettone, miele, uva passa e fichi disidratati) intreccia con quello del formaggio un dialogo simile a quello registrato con il primo abbinamento, sebbene più spostato sul versante delle tostature; mentre la stazza etilica della sorsata, sempre in saldatura con la bollicina (benché qui meno pulsante), risolve in modo egregio la gestione dalla massa lipidica del boccone; infine, la bevuta, rivelandosi ancora più dolce rispetto alla precedente, ottimizza ulteriormente il meccanismo del contrasto armonico con le unghiosità sapido-piccanti dell’imbriago.

CON LA IMPERIAL PORTER
Ma non una semplice Imperial Porter: una versione – attentamente studiata dalla squadra di “Brewfist” (a Codogno, nel Lodigiano) – che viene elaborata con aggiunte di caffè (estratto a freddo) e cocco, per poi sostenere una maturazione in botti da rhum e bourbon. Insomma, un piccolo ordigno sensoriale: che per questo collochiamo in terza e ultima posizione, nella nostra scaletta, nonostante una gradazione alcolica inferiore rispetto alla “Sabine” e pari, per l’esattezza, all’8,5%. La sua massa liquida, di un caldo color ebano, sviluppa aromi da un lato di cioccolato e prugna (che agganciano il frutto rosso del formaggi), dall’altro di peperone e legno verde (tra i cromosomi olfattivi del Cabernet Sauvignon): generando insomma, col formaggio, un bel reticolo di collimazioni. Sul piano palatale, la comunque potente spinta etilica della sorsata, unita all’acidità dei malti scuri, gestisce con disinvoltura la pur notevole materia grassa del boccone. Infine, l’architettura gustativa della birra, volutamente dolce, ancora una volta dialoga a meraviglia con la spinta sapido-piccante dell’imbriago, regalando armonie ad alta intensità…

BIRRIFICIO BATZEN
Via Andreas-Hofer, 30 – Bolzano
T. 0471 050950
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BIRRIFICIO BIREN
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BIRRIFICIO BREWFIST
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T. 0377 379814
info@brewfist.com
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