Nuova incursione nel reame della pizza: anzi, delle pizze, rigorosamente al plurale. Questa volta per curiosare da vicino tra le spigolature riguardanti storia e peculiarità di una ricetta classica: la “marinara”. Una versione semplice, quasi basilare: preparata solo con pomodoro, aglio, origano e olio; però attenzione, “essenziale” non significa banale né tantomeno debole nel temperamento. Al contrario, quel semplice quartetto d’ingredienti dà vita a un’alchimia organolettica energica e precisa nella fisionomia: tale da vietare, in abbinamento, atteggiamenti superficiali e facilonerie. Ma andiamo, come sempre, per gradi, partendo dalle origini della ricetta: che, in quanto versione della “napoletana” (qui il disciplinare), è tutelata dal marchio STG (Specialità territoriale garantita).
UN NOME, UNA STORIA
Attestata ufficialmente come “marinara” a partire dal 1734, la nostra pizza di oggi fa risalire i propri natali, con ogni probabilità, già ai decenni precedenti: quando s’impone tra i pescatori – che sembra fossero soliti consumarne dopo il rientro dalle faticose uscite in barca – per via della maggior facilità di reperimento e di conservazione propria dei suoi ingredienti. A propositi dei quali, alcuni storici di settore riportano l’ipotesi per cui il pomodoro si sia affermato solo successivamente tra le “materie prime indispensabili”; mentre all’inizio la preparazione avrebbe incluso acciughe, capperi, origano, olive nere ed extravergine d’oliva: disegnando insomma un insieme di connotati gustolfattivi del tutto diverso da quelli odierni. Una trasformazione, questa (se attendibile), che potrebbe aver contribuito a consolidare una seconda consuetudine, a sua volta sostenuta da un gruppo di osservatori: quella per cui, alla denominazione “marinara”, si sarebbe affiancata per lungo tempo (grossomodo fino all’ultimo quarto del XX secolo) la designazione di “olio e pomodoro”.
ALLA SALUTE!
No, il tempo di sollevare i bicchieri non è ancora arrivato. Ma il termine “salute” si può ben spendere già fin d’ora. Perché, tra le pizze, la “marinara” vanta una collocazione nel novero delle più leggere. Addirittura, secondo certe fonti, è in assoluto la più virtuosa, sotto il profilo dietetico. Confrontando i riferimenti prevalenti, la calorie riportate – ogni 100 grammi di prodotto – oscillano infatti tra le 170 e le 250. E non solo: in base a studi condotti dal Dipartimento di Farmacia dell’Università Federico II, la compresenza di olio d’oliva e pomodori garantisce un prezioso tesoretto di antiossidanti (in specie polifenoli e licopene), sostanze delle quali è dimostrata l’azione positiva nel prevenire processi patologici: infiammatori, allergici, trombotici e altri ancora.
IN ABBINAMENTO
Ma passiamo (sebbene idealmente) al sederci, gambe sotto il tavolo. E al suggerire alcune opzioni d’abbinamento tra la “marinara” e la birra. Volendo procedere con metodo, inevitabile iniziare la ricerca tratteggiando, prima, il profilo organolettico della nostra pizza. Morbida e croccante al contempo, la sua consistenza è, nell’insieme, leggera; quanto al complesso del materiale amidaceo e lipidico, se i grassi si attestano su livelli davvero bassi (siamo attorno al 2% scarso), i carboidrati albergano invece il piatto con più che discreta cospicuità (siamo attorno al 33%). La densità sensoriale risulta piuttosto elevata, unendo valori significativi almeno in intensità e persistenza, anche se non proprio in complessità; passando alla tendenza gustativa, elementi trainanti risultano essere sapidità a acidulità (con talvolta, possibili spunti di piccantezza legati all’olio); infine, le direzioni olfattive sono dettate sia dalle tostature a carico della pasta sia dalle aromaticità del pomodoro, dell’origano (con il suo vegetale vagamente speziato) e dell’aglio (la cui potenziale insistenza dopo la masticazione suggerisce il ricorso a sorsate acidule o addirittura acide). Traendo le somme: servono birre di personalità e tali da evitare (in gran parte o del tutto) gli orientamenti legati all’amaro; meglio propendere per inclinazioni morbido-dolci o, meglio ancora, dolciacide. Ed ecco – sulla scorta di quanto appena detto – tre prove di “matrimonio” con altrettante diverse tipologie birrarie.
CON LA BLANCHE
Si parte in modalità leggera: con una Blanche. Per la precisione la “Wit” targata “Bajon”, marchio romagnolo di Porto Corsini (Ravenna): interpretazione dal colore paglierino opalescente e dotata di un bagaglio aromatico robusto, discendente sia dal lievito selezionato sia dalla speziatura diretta (alquanto potenziata rispetto al canone tipologico: scorze d’arancia, bergamotto, pepe rosa in bacche fresche e semi di coriandolo). Così, se nell’insieme la densità sensoriale complessiva della birra soffre un po’ nel braccio di ferro con la pizza, tuttavia fa meno fatica di quanto probabilmente capiterebbe a una versione più ordinaria della stessa tipologia. Peraltro, coriandolo e pepe stabiliscono, con aglio e origano, un dialogo tra speziature decisamente armonico; mentre il taglio dolceacido della sorsata, da un lato opera in sovrapposizione armonica con quello, analogo, del boccone; dall’altro, fluidifica con una certa disinvoltura – malgrado la bassa taglia alcolica: 4.5% – la massa carboidratica del piatto, assicurando ordine al cavo orale dopo masticazione e bevuta.
CON LA BERLINER WEISSE
Regole d’ingaggio simili quelle stabilite, con la pizza, da parte del secondo bicchiere in assaggio. Si tratta di una Berliner Weisse con aggiunta di frutta: la “Agra” della scuderia “Birra Fon”, a Borgo d’Anaunia (Trento), lavorata con polpa di maracuja. Colore paglierino e aspetto velato, la birra, rispetto alla precedente, si qualifica per una gradazione inferiore (siamo al 3.5%), ma per un’acidità decisamente maggiore; requisiti che migliorano l’interazione con il piatto sotto almeno tre aspetti: i rapporti di forza generali, in termini di densità sensoriale complessiva; la capacità di sciogliere la materia carboidratica (e in parte lipidica) del boccone; l’attitudine a smorzarne la potenziale insistenza gustolfattiva, legata alla considerevole presenza di aglio.
CON LA DUBBEL
L’approccio cambia radicalmente con il terzo abbinamento. Che chiama sul “quadrato” una Dubbel: la “Medusa”, firmata a Sinagra (Messina) dal marchio “Epica” e personalizzata con aggiunta di coriandolo. Bruna nel colore, lievemente velata nell’aspetto e muscolare nella gradazione (siamo a quota 8), la bevuta si affida proprio alla sta spinta alcolica (unita a una bollicina ben integrata) per gestire la materia amidacea a grassa del boccone, cogliendo un risultato più che soddisfacente: almeno tanto quanto quello relativo ai rapporti di forza complessivi con il piatto, anche in questo caso (come per la Berliner Weisse) decisamente equilibrati. Sotto il profilo gustativo, poi, se alla sorsata manca l’acidulo, non fanno però difetto né morbidezza né astensione dall’amaro: un modo diverso, ma ugualmente sensato, di cercare l’intesa con il taglio sapido-acido della “marinara”. Infine le relazioni olfattive: con la birra che, con il suo coriandolo dà vita a una “partita” analoga a quella già giocata dalla Blanche; e che, con le sua tostature (tipiche della tipologia di riferimento: nocciola e biscotto in specie), riprende le collimanti note di cottura apportate dalla pasta della pizza.
BIRRA FON
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