Talvolta, il tema attorno al quale costruire un confronto, ricavandone spunti buoni per un utile approfondimento, si presenta da solo: senza averlo messo in agenda, ma semplicemente imbattendovisi, in modo anche un po’ fortunoso. È successo così per l’argomento di cui ci accingiamo a parlare: emerso, senza che lo si fosse focalizzato preliminarmente, durante una serata “a soggetto” organizzata dal Red Hop Pub, di Livorno: quando il locale ha riservato le sue spine a una “tap takeover” dedicata ai prodotti del “Birrificio Altavia”. Del marchio ligure (con base a Quiliano, nel Savonese) abbiamo parlato più volte, su queste colonne: evidenziandone in particolare la vocazione alle basse fermentazioni; in questa ulteriore circostanza, gli assaggi hanno abbracciato un raggio tipologico più ampio, con incursioni in diversi territori stilistici. Ebbene, in corso d’opera, alternando le bevute a qualche piatto proposto dal menù “della casa”, si è delineato un possibile filo conduttore: quello relativo, appunto, alla gestione, in abbinamento, del lato amaro che può manifestarsi in una “pinta”. Da qui l’idea di scriverne…
AMARE L’AMARO
Prima però di scendere nel dettaglio delle prove pratiche effettuate nella fattispecie, ci sembra opportuna una premessa. Nella trattazione corrente, la presenza dell’amaro nel contesto di un abbinamento è generalmente considerata come una questione, almeno in parte, problematica. Il che è sensato, dal punto di vista metodologico: perché – statisticamente parlando – al palato viene percepita come disarmonica, come fonte di “frizioni”, la sovrapposizione tra i contenuti amaricanti e tutto un ventaglio, piuttosto ampio, di altre connotazioni sensoriali (tra l’altro ben ricorrenti nella cucina italiana): sapidità, astringenza, piccantezza, acidità. Un quadro a fronte del quale risulta parimenti sensato muoversi al fine di evitarle, quelle giustapposizioni; ponendosi dunque in un’ottica per cui rispettare tutta una serie di paletti. Ora, il punto chiave di una simile logica sta tutto nell’avverbio utilizzato poche righe sopra: “statisticamente”. Ovvero: la varie dissonanze cui abbiamo appena fatto cenno sono così classificabili nella misura in cui vengono percepite come tali da parte di una quota maggioritaria tra coloro che si trovano a sperimentarle. Il che non significa che quella maggioranza abbia “ragione”; e che, per contro abbia “torto” chi invece trovi gradevoli tutte (o alcune tra) le combinazioni “incriminate”. Perché il gusto è una faccenda totalmente soggettiva, personale; insomma (parafrasando un noto proverbio), “non è buono ciò che è buono, è buono ciò che piace”. E dunque – giungendo al succo della premessa – non si tratta di imbastire un “processo all’amaro”; semmai il contrario: ovvero di coglierne il ruolo (pur volendosi muovere in accordo con le indicazioni statistiche prevalenti) come un’opportunità da sfruttare, da valorizzare al meglio. Ecco come ci abbiamo provato; cercando, negli abbinamenti, di lavorare “su misura” attorno a tre referenze della gamma “Altavia”.
LA “SCAU” RAUCHBIER
Partiamo con una Rauchbier dai tratti fortemente territoriali. La “Scau” infatti – oltre ad avvalersi di una luppolatura monovarietale a base di Hallertau Tradition; e di una fermentazione consegnata all’affidabilità di un ceppo Lager selezionato in sintonia con il temperamento francone – nasce da una miscela secca in cui, a malti Monaco e Cara Monaco, si affianca un Pils sottoposto ad affumicatura in essiccatoi locali da castagne. Ne nasce un colore ambrato carico, di certa velatura e bordato da schiuma beige; una tavolozza aromatica intonata al biscotto, alla nocciola, ai funghi in ammollo e naturalmente alle note “smoked”; una bevuta di corporeità medio-leggera chiusa da un finale secco e (appunto) di lieve amaricatura. Per l’accostamento in tavola abbiamo puntato su un hamburger di ceci, scamorza affumicata, melanzane e peperoni, rispetto alla cui formulazione “da menù”, abbiamo però chiesto alla cucina di escludere il condimento di senape e maionese. Risultato: la gradazione (5,2%) e la bollicina della birra hanno buon gioco nei confronti della materia grassa del boccone (data da legumi e formaggio); scamorza e malti “rauch” stabiliscono la prevista continuità tra le direzioni olfattive del piatto e quelle del bicchiere; la rinuncia alle due salse, quindi ai loro elementi di acidità (la maionese) e di piccantezza (la senape), scongiurano qualsiasi possibile corto circuito con l’amaro della bevuta, il quale si esprime in piena libertà e gradevolezza.
LA “CONTAMUSSE” AMERICAN PALE ALE
Secondo test: sul ring sale la Contamusse”, American Pale Ale da 6.6 gradi, prodotta con malti Pils e Cara Pils; con luppoli di varietà Mosaic, Ekuanot, e Citra; con inoculo di lievito Vermont. Alla mescita, il suo colore è dorato, l’aspetto equilibratamente velato, la schiuma proporzionata e bianca; i profumi fanno vibrare corde fruttate (melone, uva spina), floreali (bosso, artemisia), agrumate (pompelmo), balsamiche (tamerice) e resinose (pino); il palato è di corporatura medio-leggera, di bollicina viva, di chiusura asciutta e di amaricatura, stavolta, incisiva. Scorrendo il ricettario del Red Hop, la nostra scelta per la prova di compatibilità ha estratto la “carta” di un petto di pollo panato e poi servito, con fette di scamorza (non affumicata), su un letto di insalata iceberg; anche in questo caso, operando l’identica variante “per sottrazione”: ovvero tenendo “in panchina” senape e maionese (invece previste dal menù). Partiamo da quest’ultimo aspetto: la “manovra” è stata, chiaramente, motivata dalle stesse ragioni esposte in relazione al primo “round”; e ha ottenuto lo stesso (positivo) risultato. In questo caso, poi, la vena “bitter” della birra va a sovrapporsi, in reciproca attenuazione, su quella dell’insalata, perfezionando ulteriormente lil gioco degli accorgimenti armonizzanti; infine, nessun problema, da parte della sorsata (con la sua dotazione in alcol e carbonazione) nel gestire il contenuto grasso del formaggio.
LA “DEIVA” DUNKLES BOCK
Terzo giro di valzer: e in campo scende, con le sue vigorie, la “Deiva”, una Dunkles Bock da 6.7 gradi, la cui personalità deriva da un impasto secco di malti Monaco e Cara Monaco; da una luppolatura affidata a gettate di Perle e Hallertau Hersbrucker; da una fermentazione incentrata sul lavoro di un ceppo Lager convenzionale e pulito. Al banco di spillatura, eccone il profilo: colore ambrato, velatura lieve, fitta schiuma avorio; olfatto mielato ed erbaceo, con temi anche di biscotto, nocciola, caramello, fungo secco e matita; ingresso palatale abboccato e finale asciutto, corpo di media caratura ed effervescenza sottile (ma vitale), chiusura amaricante equilibrata di tenore tostato. Quale il “matrimonio” con questa signorina in scuro? Abbiamo pensato a delle nozze contadine: con un bruschettone al lardo, guarnito da pomodori secchi, foglie di rucola e gocce di miele. Stavolta senza toccare in alcun modo la portata così come confezionata da menù: lo zucchero del miele e il grasso del lardo ammansiscono infatti, anzi quasi azzerano, sia la piccantezza della rucola sia la sapidità e l’acidità dei pomodori secchi, disinnescandone i rischi di attrito con l’appena citato esito amaricante della bevuta. Mentre quest’ultima, da un lato, del miele stesso riprende e asseconda il profumo, in piacevole continuità aromatica; dall’altro, con le sue funzioni solventi (l’alcol) e di stimolo salivale (la carbonazione), scioglie e rende facilmente assimilabile la “gittata” lipidica del salume…
RED HOP
Borgo dei Cappuccini, 26 – Livorno
T. 333 296 0666
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BIRRIFICIO ALTAVIA
Via Tecci, 14 – Quiliano (Savona)
T. 349 7392703
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