Altro giro, altra corsa nel viaggi esplorativi di “Una per tutto, tutto per una”: il ciclo di appuntamenti periodici con cui “Cronache di gusto” pone sotto la lente d’osservazione una specifica birra, tratteggiandone la personalità organolettica e indagandone le potenzialità sul fronte degli abbinamento con la cucina. Ebbene, sulla mappa geobrassicola italiana, ci spostiamo in questo caso a nord-est: e precisamente a Rosà (in provincia di Vicenza), all’ombra del cui campanile sbuffano i fermentatori del marchio artigianale Labi. Il quale, tra molte altre, firma l’etichetta della “Dulcis”: una vigorosa bevuta da 10 gradi, ispirata alla tipologia storica delle “Tripel”, ma con un taglio decisamente personalizzato.
UNA TRIPEL “A MODO SUO”
Estremamente semplice nella progettazione, la “Dulcis” nasce da una ricetta che prevede un mosto da solo malto Pils; una luppolatura monovarietale, condotta gettando esclusivamente Perle della Hallertau; una fermentazione affidata a un lievito selezionato per il territorio stilistico in questione. Al banco d’assaggio, si presenta sfoderando un’estetica autorevole e accattivante: colore dorato pieno, aspetto diffusamente velato, schiuma bianca copiosa nonché apprezzabilmente fine e durevole. Sfruttando anche l’ascensore dei suoi 10 gradi alcolici, la massa liquida, salendo la temperatura, diffonde aromi copiosi: di timbro maltato (pasta frolla, cracker), mielato, floreale (gelsomino, sambuco), speziato (chiodi di garofano, pepe, vaniglia) e fruttato (banana, pera, mandorla). Il tutto a premessa di una bevuta appagante e da affrontare con la dovuta circospezione, appunto per la sua vampa etilica: ben mimetizzata, a dire il vero, tanto da rilasciare, in deglutizione un calore non così rovente; il che rende pericolosamente agibile una sorsata caratterizzata da doti atletiche, quali una corporatura medio-leggera, una bollicina brillante e una condotta gustativa il cui bilanciamento dolceamaro si dirige verso una chiusura segnata da un livello di “zuccherino percepito” più elevato rispetto alla media espressa dalla tipologia d’ispirazione, statisticamente intonata a canoni di risoluta secchezza. Siamo di fronte, insomma, a una libera interpretazione dello stile di riferimento: legittima e tale, a nostro avviso, da rendere, questa, una birra decisamente gastronomica. La cui personalità abbiamo voluto mettere alla prova in una batteria di tre diversi abbinamenti…
CON LA PIADINA “COPPA, POMODORO E NOCI”
Preparazione elementare; gusto e golosità stratosferici. Una classica piadina (farina di frumento, acqua, strutto, sale più bicarbonato come agente di lievitazione); una robusta farcitura di Coppa di Parma IGP (salume suino tra i più pregiati in Italia); qualche gheriglio di noce e qualche rondella di pomodoro ben maturo. Al morso, si avverte una densità sensoriale elevata (cui la birra tiene testa in scioltezza); una massa grassa e carboidratica consistente (sembra fatta apposta perché la Tripel vi possa sfogare la propria veemenza alcolica e frizzante); una tendenza gustativa acido-sapida (che la dolcezza della sorsata accarezza e ammansisce); una dominante olfattiva sia carnea sia tostata (tratto, il secondo, che trova corrispondenza quantomeno in due qualità olfattive della sorsata: mandorla e cracker). Insomma, un bel reticolo di corrispondenze armoniche.
CON L’ASIAGO MEZZANO
Il secondo “incontro in tavola”, fortemente e volutamente territoriale, è con l’Asiago Mezzano: ovvero la versione – tra le diverse contemplate per il ben noto formaggio DOP del Vicentino – che prevede una stagionatura tra i 4 e i 10 mesi. Tempi di maturazione in virtù dei quali, all’assaggio, rivela una già notevole densità sensoriale (paragonabile a quella della nostra birra); un’ovviamente considerevole “carrozzeria” in termini di materia grassa (ancor più adatta alle incisività che la Tripel sguaina in alcol e carbonazione); un iter gustativo di orientamento dolce-sapido (e qui, come prima, la chiusura zuccherina della sorsata opera in compensazione armonica); una tendenza olfattiva in cui troviamo suggestioni da fieno, burro e frutta secca (con quest’ultimo elemento a fare “da ponte” verso le tostature della sorsata: cracker e, soprattutto, mandorla).
CON IL RISOTTO ZUCCA E NOCE MOSCATA
Ricetta non complicata e, di nuovo, un festival per il palato. Il nostro risotto si “apparecchia” in poche mosse. La prima: soffriggere in padella, su un velo d’olio extravergine, qualche cipolla tritata finemente. Secondo passaggio: versare nella stessa padella il riso e tostarlo un paio di minuti, per poi sfumare con vino bianco. Terza manovra: aggiungere (dopo averla schiacciata e ammorbidita, nonché “regolata” di sale e pepe) la polpa di una zucca precedentemente cotta in forno per mezz’ora circa. Quarta fase: procedere aggiungendo brodo vegetale, a sufficienza per mantenere morbida la massa in cottura, e spolverando con noce moscata a metà percorso. Quinta e ultima operazione: quando, sotto il dente, il chicco è pronto, rifinire con altro olio, altra noce moscata, per poi amalgamare e servire in tavola. Come con la Coppa e con l’Asiago, la densità sensoriale è alta (presupposto inderogabile per una birra, quale la nostra, di gran temperamento). Diversamente dalle prove precedenti, invece, la materia grassa è decisamente contenuta: ma proporzionalmente abbondante si rivela quella amidacea (e quindi, di nuovo, abbiamo un filamento da sciogliere, contro il quale “lanciare” la carica alcolica ed effervescente della Tripel). In affinità con il “Mezzano”, poi, la tendenza gustativa del risotto è di timbro dolce-sapido (e dunque abbiamo risultati simili nell’incrocio con la dolcezza della sorsata). Infine, sul piano olfattivo, ecco una doppia collimazione: da un lato le tostature del piatto (a carico di cereale e ortaggio) riprendono quelle della bevuta; dall’altro la noce moscata instaura un dialogo ravvicinato e armonico con il chiodo di garofano che si avverte nella “Dulcis”.
BIRRIFICIO LABI
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