di Andrea Camaschella
Ci sono birre che ti colpiscono per la semplicità, altre, al contrario, per la loro complessità. La Raw di Moor mi ha da subito colpito per come ha riscritto una tradizionale real ale inglese.
Ci voleva un birraio americano, californiano, come Justin Hawke anzitutto per salvare un birrificio chiuso e destinato a scomparire per sempre, nel 2007 e poi per portare un po’ di modernità al panorama anglosassone. Conobbi Justin a Bra in occasione di Cheese nel 2013, grazie al suo distributore italiano, Lorenzo Fortini, di Ales and Co., che lo importava da un anno circa. Ci misi pochi secondi a indovinare che non era inglese: anzitutto capivo quello che mi diceva e poi era curioso di quello che lo circondava, quasi fosse in cerca di ispirazione, anche dai birrai italiani. Dopo averlo incontrato più e più volte, in Italia (sempre presente al Sour festival e occasionalmente in giro per serate o semplicemente per trovare le persone con cui, man mano, ha creato rapporti di amicizia) come in Germania e averlo avuto a più laboratori come compagno di banco (tra gli oratori…) non posso che confermare la prima, piacevole, impressione, che si trasferisce anche alle birre.
(Justin Hawke)
La Raw, una Best Bitter da 4,5% Vol. di alcol, fu inizialmente prodotta su commissione per la “Real Ale Weston” e la “Royal Artillery Arms”, due pub nei dintorni del birrificio, oggi è disponibile anche in lattina.
Si presenta limpida di un bel dorato con riflessi arancioni e ambrati, la schiuma, a grana fine, compatta e persistente, è bianca. Un bel biglietto da visita, non c’è che dire, anzi c’è da portarla al naso, per scoprire i delicati profumi di luppoli e malti. L’olfatto non è travolto, i profumi sono appunto tenui e contenuti, fruttati, floreali, miele, pane, con agrumi in buon evidenza. Le premesse ci sono tutte, è ora di assaggiarla e scoprire il suo carattere e i suoi sapori. L’equilibrio è perfetto, da manuale, tra dolce e amaro, tra secco e corpo. Il dolce scivola via velocemente, ma la secchezza non scopre un amaro scomposto, anzi la sensazione è morbida e l’amaro è percepibile ma ben raccordato. La gassatura è fine e il corpo è slanciato.
Il retro-olfattivo è fruttato, non particolarmente persistente. Tirando le somme è una birra da bere in grande quantità, che grazie alla lattina conserva al meglio le sue caratteristiche organolettiche e infatti non si percepisce ossidazione. In compenso si percepisce – questo sì – la voglia di un altro sorso. La prima reazione, in realtà, è un po’ deludente: la RAW non è più quella di una volta. Fino a pochi anni fa era una birra inglese tradizionale al 100%, con quel crispy, quella sensazione di corpo pieno donata dai malti, che si sentono molto meno di prima: il profumo di biscotti al naso, praticamente scomparso, il sapore dolce del malto che faceva capolino dal corpo, più pieno, una sensazione di appagamento ad ogni sorso.
Poi, ripensandoci, è quello che mi aspetto da Justin: un incontro sull’oceano Atlantico tra la cultura, decisamente tradizionale inglese e quella innovatrice nord americana, una Best Bitter che occhieggia a una Pale Ale. Soprattutto è una birra che racconta dove sta andando, o forse dove dovrebbe andare, la scuola birraria anglosassone: anziché usare esageratamente luppoli americani su struttura di malti anglofila che poco hanno a che fare tra di loro, la RAW disegna il classico percorso inglese di birre da bersi facilmente e in grandi quantità, solo con una ricetta più attuale e molto più elegante, aggettivo che normalmente non si utilizzerebbe per una produzione d’oltremanica. I prezzi: la lattina circa 5 euro, la bottiglia intorno a 7 euro
Rubrica a cura di Andrea Camaschella e Mauro Ricci
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