di Andrea Camaschella
I barley wine, vino d’orzo, sono uno stile di birre nato in Inghilterra, complesso, difficile, con una storia alle spalle di grande fascino.
La leggenda vorrebbe che fossero nate per sostituire, sulle tavole dei nobili, il vino francese introvabile a causa delle guerre tra Regno Unito e Francia. Peccato che i primi esempi risalgano a fine XIX secolo e che i barley wine si siano affermati in piena Belle Époque. Si tratta comunque di birre importanti, prodotte, nemmeno sempre, una volta all’anno da alcuni birrifici inglesi, come birre celebrative, fosse anche, semplicemente, del proprio lavoro. Il più famoso è, manco a dirlo, inglese e si chiama Thomas Hardy; le verticali di questa leggendaria birra sono una pietra miliare nella formazione di ognuno di noi. Si trascende la degustazione vera e propria, si gioca coi sentimenti, con la memoria di altre verticali, si sprecano i paragoni, si nota quanto a lungo possono invecchiare e per quanto (tanto, tantissimo, oltre 30 anni) possono ancora evolvere in meglio. A volte un’annata delude, ma svariati anni più tardi colpisce per quanto ha recuperato; viceversa ci sono annate che colpiscono già da giovani – si parla comunque di 4 o 5 anni – ma potrebbero tradire più avanti.
L’ultima versione è prodotta a Greenwich, da Meantime, su licenza italiana, visto che oggi il marchio è di Interbrau, azienda italiana. Conosco abbastanza bene la Historic Ale 2016, birra che mostra già una grande complessità, rotonda e piena, con ancora margini di miglioramento, sulle note di ossidazione, ma già una gran birra. A Cheese, la manifestazione che SlowFood dedica ai formaggi negli anni dispari, durante un laboratorio dal titolo “Dio li fa e poi li accoppia: i barley wine e i formaggi erborinati” la prima birra servita ha sovrastato il re. Capita a volte che una birra, bevuta a sé dia una certa impressione e che poi, nel confronto diretto, il giudizio cambi e di parecchio. Qui però siamo ai limiti della lesa maestà: la Historic Ale 2016, pur essendo in forma, non ha saputo recuperare sulla birra servita prima, la Hell Rice del vercellese Birrificio Sant’Andrea.
Al tavolo siamo io e Luca Giaccone, con birrai o rappresentanti dei birrifici e mentre Luca parla della Thomas Hardy, io torno col naso sul primo bicchiere, quello della Hell Rice, ed ecco che si è aperta, arrotondata. Ha “respirato” dopo essere stata chiusa in bottiglia per quasi 4 lunghi anni (la birra assaggiata fu imbottigliata nel 2014) e supera il maestro, con grande appagamento olfattivo e gustativo. La provincia si fa beffa dell’Impero presentando un barley wine da manuale, prodotto con quasi il 20% di riso coltivato localmente. Due campioni indiscussi da riso e risotti come il Baldo e il Carnaroli e due qualità più recenti, il nero Venere e il rosso Hermes, si fondono con il Maris Otter, malto di scuola inglese, così come il luppolo East Kent Goldings. Le note inglesi sono anche sottolineate dal riso Hermes, che dona qualche nota terrosa, oltre a un blando colore. Il riso Venere lascia invece colore più scuro e qualche tenue nota di liquirizia e vaniglia.
I singoli sapori, in questa birra, non hanno grande risonanza, qui risalta il bouquet, arrotondato e slanciato dall’ossidazione, caratteristica, positiva, di queste birre. L’aspetto è da manuale: colore oro antico, con riflessi rubini, schiuma evanescente, buona limpidezza sono il biglietto da visita. Sentori di caramello, di tabacco, di frutta sotto spirito e sciroppata e ancora frutta ma secca, note tostate, vinose, di vini liquorosi, cuoio e ovviamente alcol (siamo pur sempre a 10,5% Vol.) a tratti pungente, ma mai fastidioso, anzi di raccordo tra tutte le sensazioni. In bocca il corpo è pieno, ricco, suadente, la carbonatazione è minima, appena percepibile. Tatto e gusto sono impegnati a fondo, con la Hell Rice, che apre con sapori di toffee e melassa e prosegue ancora su note dolci, arrotondate dal calore dell’alcol, di frutta candita e secca e una buona intromissione di note di luppoli inglesi (o forse di riso Hermes e Venere) verso il finale e poi il retrogusto, lungo e avvolgente, degno di un Porto o di uno Sherry.
Birra lunga e complessa non solo da degustare, ma anche da produrre, soprattutto a causa del riso, con i suoi amidi difficili da domare: d’altronde il nome è inferno di riso tradotto in italiano e infernale è il lavoro in birrificio per creare il mosto prima, portarla a fine fermentazione e poi alla lunga maturazione prima dell’imbottigliamento. E ancora attesa per poterla gustare. Fortunatamente non è una birra che scompare in due secondi dal bicchiere, ma che si fa apprezzare ripagando tutto lo sforzo che l’ha portata fino a lì. Lode a Bsa che la produce. Si abbina benissimo con qualsiasi formaggio erborinato, dal gorgonzola naturale a uno Stichelton, ben stagionati, ma anche un Roquefort o un Castelmagno, proponendosi quindi non solo come birra da meditazione, ma anche da fine pasto, seppur impegnativo.
Rubrica a cura di Andrea Camaschella e Mauro Ricci
BSA – Birrificio Sant'Andrea
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