di Andrea Camaschella
Il Natale è alle porte e soprattutto in questo momento, in cui la caldaia è andata in blocco e i tecnici stanno lavorando per farla ripartire, mi occorre una birra calda, suadente, appagante.
La scelta cade sulla Chimay Blu, nata nel 1956 proprio come birra natalizia. Dal 1982 è disponibile anche in bottiglia da 75 centilitri e attualmente anche in Magnum, Jéroboam e Mathusalem, in questo caso però sull’etichetta appare il nome di Grande Réserve. Birra di Natale, birra dunque senza uno stile di riferimento, fatto salvo che tutte o quasi sono birre dal buon tenore alcolico, adatte a riscaldare il corpo (e l’anima) nel periodo invernale. Color mogano, limpida, con dei riflessi ramati, sormontata da una schiuma cappuccino, fine, non particolarmente persistente. Decisamente invitante. Ancor di più lo è per i suoi profumi, di frutta matura, tostata, di caramello, floreali, di spezie; profumi caldi e avvolgenti. Le note ossidate ampliano i sentori, l’avvicinano a un vino. In bocca conferma le promesse, dolce ma non stucchevole, con una punta di sapidità e di amaro, una lieve astringenza che raccordano e accelerano il finale, quando i 9 gradi alcolici si presentano, scaldando piacevolmente il palato e progressivamente il corpo intero, lasciando una sensazione di benessere. Ricordi di Porto e Madera, suggestioni tra un vino e un liquore, suggellati dal corpo generoso, che ne esalta la morbidezza, stemperata solo dalla fine gasatura. Birra da grande invecchiamento, da esibire in suggestive verticali, a patto di riuscire a lasciarne qualche bottiglia in cantina, lavoro facilitato dalla presenza dell’anno di produzione sull’etichetta. Merito di una molecola, il sotolone, che in questa birra, come nei vini Solera, trasforma l’ossidazione da problema in capolavoro.
Merito anche e soprattutto di Chimay e di chi su questa birra ci lavora e ci ha lavorato, in tempi ben più difficili di questi. Dopo la guerra l’abbazia di Scourmont deve ripartire da zero: l’invasore teutonico ha saccheggiato e distrutto in ogni dove. Si ricostruisce faticosamente il birrificio, si ricomincia a lavorare, con grande fatica, ma il sudore non ha mai spaventato i padri trappisti, per riportare Chimay sul mercato, per consolidarne la posizione, per creare nuove birre, per garantire qualità e costanza. Padre Théodore studia la birra moderna, le nuove tecniche, le nuove ricette e, sul finire degli anni ’40, isola il ceppo di lievito che a tutt’oggi è utilizzato per trasformare in birra il mosto. Il suo microscopio è ancora lì, affascinante pezzo da museo in mezzo agli strumenti moderni nel laboratorio di Chimay, all’interno del birrificio, a imperitura memoria del “tocco” Chimay, donato da quel lievito che caratterizza ogni birra (lo stesso lievito, qualunque sia la birra), in ogni suo lotto, da quasi mezzo secolo.
Stupidamente molti hanno criticato Chimay per un ingrediente, l’amido di frumento, pensando a chissà quale diavoleria (forse non è il termine più corretto, visto il contesto, ma i frati mi perdoneranno) chimica. In realtà si tratta semplicemente di frumento non maltato macinato in birrificio: in Belgio è chiamato amido. Se avessero voluto abbattere i costi a scapito della qualità degli ingredienti, avrebbero utilizzato l’amido di patate… Per i puristi anche l’uso degli estratti di luppolo sono un’inclinazione verso l’industria, ma non si tiene conto della necessità di Padre Théodore di offrire un prodotto stabile, sempre riconducibile, soprattutto in un periodo in cui la qualità del luppolo, dal campo ai metodi di conservazione, era meno controllata e sicura. Oggi in Chimay non si usano solo estratti, ma il legame con la tradizione e quindi con il lavoro del loro fratello Théodore, frena slanci eccessivi e profondi cambiamenti. Un birrificio Trappista ha altre priorità.
L’attenzione all’ambiente è ai massimi livelli. Recupero di CO2, pannelli solari, un intero parco eolico costruito nei dintorni, recupero del calore prodotto nel birrificio, certo col problema poi di utilizzarlo questo calore così che, per la prima volta dalla costruzione del monastero, le celle in cui dormono i frati (che pare non abbiano realmente gradito, ma hanno fatto buon viso e sospetto che oggi si siano anche abituati) sono state riscaldate. Non sono più i buoi e i cavalli a trascinare i carri ma i trattori e la strada passa proprio accanto al pozzo da cui storicamente si preleva l’acqua per la produzione, mettendolo a rischio di contaminazione? Nessun problema, si sposta la strada e si fa ricrescere il bosco per proteggere il pozzo. Grande attenzione anche per i dipendenti: l’implementazione di nuovi macchinari è volta a migliorare le condizioni di lavoro, aumentare la produzione, migliorare la qualità, magari assumere qualcun altro, ma mai a sostituire delle persone. Tecnologia a servizio del bene.
Già, il bene inteso anche come opere di carità, la base dell’ordine trappista. In una zona un tempo ricca grazie alle sue miniere e oggi in depressione economica, le birre e i formaggi di Chimay, con i loro proventi economici, sono stati fondamentali nell’aiutare la popolazione attorno al monastero, che, grazie al parco eolico, gode di uno sconto sulla bolletta della fornitura elettrica. Anche la scelta di spostare il caseificio e la linea di imbottigliamento al di fuori delle mura del monastero, è pragmatica: aumentare la produzione, migliorare gli spazi e quindi le condizioni di lavoro, controllare maglio la qualità, ma anche creare un nuovo polo artigianale e commerciale per rilanciare economicamente l’area.
Questo è ciò che si cela dietro al logo esagonale – che fa bella mostra di sé su ogni prodotto di un’abbazia trappista – di Autentico Prodotto Trappista. Questo è anche l’unico significato di “birra trappista”: non ci indica uno stile, non ci offre indicazioni di gusti e sapori, ci dice che i frati sovrintendono al lavoro e che i proventi non arricchiranno i frati, che non girano in Ferrari, ma in qualche modo aiuteranno la popolazione, i frati stessi e chi lavora per loro. Il mio contributo alla causa lo offro volentieri, versandomi in una coppa trappista le loro birre, magari accompagnando la bevuta con una fetta di formaggio, rigorosamente di produzione trappista, in questo caso meglio ancora con il Grand Chimay. I frati non chiedono altro, io nemmeno e, appagato (anche dalla caldaia che è ripartita), auguro a tutti buone feste.
Rubrica a cura di Andrea Camaschella e Mauro Ricci
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