Iga, Italian Grape Ale: “Gentilmente, datemi del voi”. No, non c’entrano niente gli allocutivi di cortesia o i formalismi delle convenzioni sociali. In questo caso l’opportunità di usare il plurale “voi” poggia saldamente su basi di concreta consistenza fattuale. Quelle per cui lo stile birrario di cui si parla presenta un profilo i cui parametri di definizione stabiliscono (in termini di opzioni produttive e quindi di risultati organolettici) un territorio vasto e delimitato da una recinzione… a maglie decisamente larghe. Stringendo: talmente numerose sono le possibilità d’impiego dell’ingrediente cardine, ovvero gli acini d’uva, che risulta impossibile pensare alla Iga come a qualcosa di coincidente con una fisionomia sensoriale più o meno univoca. Al contrario, le molteplicità delle procedure ammissibili si riflette in un altrettanto ampio assortimento di quelle che potremmo designare come sottocategorie. Un argomento, questo, che abbiamo affrontato in dettaglio nel nostro primo approfondimento sul tema (leggi questo articolo>); e sul quale dunque sarebbe superfluo tornare. Andiamo, invece, dritti al contenuto di questa nuova puntata sulle Italian Grape Ale: un assaggio comparativo di sette prodotti, ciascuno diverso dall’altro per i vitigni in gioco, per le loro modalità di lavorazione, per il ricorso o meno a maturazioni in legno e per le specificità di tali affinamenti. Pronti? E allora si parte…
“TONDA” DEL BIRRIFICIO “MALASPINA”
Avvio tranquillo, ma non troppo. Almeno sotto il profilo dell’alcol in circolo: ché ci si posiziona subito a quota 7. Non avvertiti, peraltro, né in termini di pungenza nasale né di calore alcolico. In questo modo si presenta la “Tonda” targata “Malaspina” (beerfirm con sede a Milano): così battezzata in quanto la ricetta include, al 25%, un mosto da grappoli di Foglia Tonda (appunto), cultivar a bacca nera che, rischiata l’estinzione, è stata invece da qualche tempo recuperata in Toscana, specialmente sulle colline del centro e del sud della regione. Gli acini, avviati a fermentazione in rosso (cioè a contatto con bucce e vinaccioli), vedono, dopo alcuni giorni, il loro succo zuccherino aggiungersi a una birra sostanzialmente pronta, una Saison per la precisione, innescandone una rifermentazione. L’aspetto è velato, la schiuma labile, il colore vagheggia qualcosa tra corallo e buccia di cipolla; il profumo tocca le corde dell’amarena e del lampone, della corteccia e della viola, senza farsi mancare un filo speziato da noce moscata; la sorsata è leggera nel corpo, dosata nella bollicina e fresca nell’acidità: quest’ultima incisiva e non disturbata da inopportune sterzate amaricanti in chiusura.
“TÈRA” DI “PODERE LA BERTA”
Decisamente più complessa la gestazione della seconda birra in assaggio: la “Tèra” firmata (a Castelnuovo Berardenga, Siena) dalle officine del “Podere La Berta”. Il prodotto nasce infatti dall’impiego di due mosti d’uva, entrambi in versione fiore: ovvero acini pressati (senza contatto con bucce e vinaccioli) onde estrarne in via immediata il liquido riccamente zuccherino. Il processo parte comunque con una birra di base, una Saison (ancora), alla fine della cui fermentazione, viene trasferita in due barrique. Nella prima – che in precedenza ha ospitato, in affinamento, del Sangiovese, si aggiunge, al 15%, un “pigiato” di acini essi stessi di Sangiovese; nella seconda – che in precedenza ha accolto, in maturazione, dello Chardonnay – si aggiunge, al 10%, di un “pigiato” di grappoli, a loro volta, di Chardonnay. Dopo 18 mesi di evoluzione in parallelo, i due fusti vengono alla fine assemblati, per poi procedere alla messa in commercio. All’apertura della bottiglia, la mescita consegna una massa liquida color oro antico, una trama ottica velata, una schiuma sottile e delicata; le narici inalano correnti da fragolina di bosco, mela, radica di noce, pepe bianco; il palato riceve un flusso fresco (in barba, di nuovo, alla gradazione: qui a 7.2), percorso da una piacevole vibrazione acidula che si accentua nel finale secco e, come prima, esente da divagazioni amaricanti.
“NINKASI” DEL “BIRRIFICIO APUANO”
Gradazione in ulteriore aumento: ci issiamo a quota 9.9 con la “Ninkasi”, una tra le diverse IGA recanti il sigillo del “Birrificio Apuano”, di stanza a Massa. In questo caso la componente enologica è di nuovo articolata: per l’esattezza abbiamo Vermentino (all’80%) e Trebbiano (al 20%). Conferite a pressatura, il loro succo, dopo un paio di giorni dall’estrazione, viene riversato nel fermentatore simultaneamente a un mosto di cereali, con la frazione vinicola nella proporzione di circa un quarto sul totale della massa. Quindi, chiuso il ciclo di produzione, si va in imbottigliamento. Al banco di prova, il color è di nuovo un oro antico, la grana ottica pulita, la schiuma vivace e copiosa, benché non persistente (ma incline a resistere in un sottile anello lungo il bordo interno del bicchiere); il naso risulta sfaccettato, allineando note da pastafrolla, pera matura, uva passa e altra frutta candita; la sorsata si rivela vitale nella bollicina, calda (ma neanche troppo) nel contenuto alcolico, dotata di una guizzante dorsale dal timbro acido-minerale e di una chiusura che, stavolta sì, concede un qualche spazio di manovra all’amaro da luppolo.
“LAVINIA GREEN LABEL” DEL BIRRIFICIO “LA DIANA”
Quarto assaggio: giro di boa; e da qui in poi si comincia a sparare con l’artiglieria pesante. Con il calibro alcolico, cioè, in dote alle diverse edizioni della “Lavinia”, la Italian Grape Ale della scuderia “La Diana” (a Isola d’Arbia, in provincia di Siena): edizioni diverse per fattura, ma tutte registrate attorno ai 10,5 gradi; e tutte accomunate, inoltre, dall’aggiunta, a fine bollitura, di un mosto di Sangiovese Grosso (il clone con cui si produce il Brunello di Montalcino), i cui acini sono conferiti in caldaia subito dopo la pigiatura, avvenuta a contatto con bucce e vinaccioli (insomma, la prassi della “vinificazione in rosso”). Il fuoco di fila delle varie “Lavinia” comincia con la “Green Label”, la quale, dopo la fermentazione e la maturazione a bassa temperatura (per la decantazione statica delle fecce), osserva un anno di maturazione in barrique provenienti da cicli di affinamento operati su vini del Chianti Classico. Al servizio nel calice, il colore è, anche qui, un oro antico, l’aspetto è lievemente velato, la schiuma… secondaria; al naso spiccano suggestioni da pastafrolla, legno fresco, mela al forno e uvetta, nonché una calibratissima volatile da Vin Santo; la stessa che contribuisce a regalare una bevuta ad alta intensità sensoriale, ma sempre bilanciata e soprattutto fresca di acidità, a dispetto delle ossidazioni e dell’ovvio calore etilico.
“LAVINIA PURPLE LABEL” DEL BIRRIFICIO “LA DIANA”
Tutte le versioni della “Lavinia” si caratterizzano per differenze che (mantenuta inalterata la preparazione della birra di base) intervengono nella seconda parte del percorso di lavorazione, in particolare relativamente alle procedure di elevazione in legno. Procedure che, in riferimento alla “Purple Label” (nostro quinto assaggio), prevedono la permanenza della birra per un primo anno in barrique “ex Chianti Classico” (come nel caso della “Green Label”) e per un secondo anno in altre barrique che, precedentemente, hanno invece ospitato, in maturazione, della grappa: ottenuta, nella fattispecie, da mosti di Brunello di Montalcino. In mescita, resta velato l’aspetto e risulta ancor più marginale la schiuma, mentre cambia il colore, che vira su un ambrato pieno; in olfazione, salgono in cattedra biscotto e frutta disidratata (fichi, datteri), uniti alla già apprezzata vena di volatile che, qui, restituisce impressioni da Sherry Fino; quanto alla bevuta – pur con lo spostamento dei contenuti aromatici di cui si è appena dato conto – si confermano quei bilanciamenti palpitanti di alcol e dolceacidità che avevamo già apprezzato nell’Etichetta Verde.
“LAVINIA BLACK LABEL” DEL BIRRIFICIO “LA DIANA”
Con l’Etichetta Nera si torna all’impiego di barrique provenienti, esclusivamente, da cicli di maturazione di vini “Chianti Classico DOCG”: ma, a distinguerla dalla “Green Label”, la “Black” sostiene un percorso di affinamento di tre anni, anziché di 12 mesi. Risultato “a valle”? Colore bruno tenue, aspetto velato, schiuma “assente giustificata”; aromi tostati e, ancora di frutta disidratata, con cremosità che, intrecciate all’immancabile “folata” di acidità volatile, spostano l’evocazione da Sherry verso la declinazione del Palo Cortado; un’immagine che trova conforto anche all’assaggio, il cui tracciato segue grossomodo i passi segnati dalla “Green” e dalla “Purple”, ma concedendo maggiori spazi di manovra, nel finale, ai contenuti tannici rilasciati dal legno.
“LAVINIA GOLDEN LABEL” DEL BIRRIFICIO “LA DIANA”
Ed eccoci al gran finale: la “Golden Label”; in qualche modo l’ammiraglia (ad oggi) della serie “Lavinia”: l’edizione che, rispetto alle altre, implica l’invecchiamento il legno più lungo e articolato. Si tratta infatti dell’assemblaggio di due “partite” di produzione: la prima tenuta a maturazione per due anni in barrique “ex Chianti Classico”; la seconda fatta affinare per ben 4 anni in barrique “ex grappa di Brunello”. Al banco d’assaggio il colore è un bruno pieno, l’aspetto velato, la schiuma un optional (e ti credo) non esigibile; il profumo risulta non dissimile da quello della “Purple” e della “Black”: e infatti si ripresenta il paragone con lo Sherry, ma stavolta nella specificità dell’Amontillado, dunque un naso lievemente più prossimo a quello della “Porpora” che non a quello della “Nera”; infine la bevuta. La quale appare, essa stessa (pur nella cornice di un telaio assimilabile a quello delle sorelle), contrassegnata da esiti di maggiore matrice tannica. Come volevasi dimostrare: non esiste “la” Iga, esistono “le” Iga…
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