Considerato da più parti come progenitore delle paste alimentari contemporanee, il testarolo è tra i fiori all’occhiello del patrimonio gastronomico che, con diversi accenti per ogni “campanile”, abbraccia una vasta area dell’Italia nord-tirrenica: distesa tra le propaggini più orientali del Levante ligure e quel lembo di territorio Toscano battezzato Lunigiana (dal nome della città di Luni, che pure si trova in provincia della Spezia). La ricetta ha origini antiche: probabilmente risalenti alla civiltà romana; e ai suoi albori prevedeva l’uso di farina ricavata dal farro, non dal frumento, come ai giorni nostri. Farina che, oggi, viene lavorata con acqua e sale, così da ottenerne un composto fluido, destinato a essere colato in teglie assai particolari (realizzate in ghisa, ferro o terracotta), designate con il termine tradizionale di “testi” (da cui il “battesimo” del prodotto alimentare che se ne ottiene).
UNA PREPARAZIONE SUGGESTIVA
Ma “particolari” perché, queste teglie? Perché composte da due metà: quella in basso, il “sottano”, riceve il calore del fornello; quella in alto, il “soprano”, copre la porzione “gemella” e ne investe il contenuto (la pastella poc’anzi descritta) con l’ulteriore vampa termica che è in grado di irradiare. Pastella la quale, dopo pochi minuti di trattamento sulla fiamma, avrà assunto la forma di un disco dalla consistenza compatta ed elastica; tale da poter essere tagliato in piccoli pezzi, di forma variabile: sì, proprio loro, i testaroli. A questo punto non c’è che da prepararli per poi poter essere gustati al meglio. Come? Anzitutto scottandoli in acqua bollente (un minuto basta e avanza), quindi arricchendoli con il condimento voluto.
L’INCONTRO CON IL POMODORO
Certamente, le guarniture più classiche sono, da un lato, con il pesto; e, dall’altro, con un sugo di salsiccia e funghi. Ma i ricettari tipici attestano almeno una terza variante: quella – un vero inno alla semplicità – che prevede di cospargere i testaroli con una bella salsa di pomodoro da aggiungere sul momento (subito dopo averli sbollentati), completando l’opera con un filo di extravergine e con una spolverata di sale, di pepe e di formaggio da grattugia. Il boccone risultante si caratterizza per un gusto dotato di una base dolce (data dai carboidrati del frumento e dagli zuccheri dell’ortaggio-cardine del condimento); nonché di chiare (ma equilibrate) vibrazioni sia acidule (dovute al pomodoro, ancora) sia sapide (apportate dal “cacio” e dall’appena citata salatura). Quanto all’olfatto, a dominare è la mediterraneità dell’intingolo; mentre sul fronte dei parametri materiali, la struttura è morbida, la frazione lipidica bassa (giusto il tocco di formaggio e olio), quella amidacea, invece, assai cospicua. Nell’insieme un piatto leggero; che abbiamo avviato alle consuete tre prove di abbinamento.
CON LA HELLES
Il compito di dare inizio alle danze spetta a una bassa fermentazione: la “Chiara” di “Orso Verde”, marchio con base a Busto Arsizio (Varese), una Munich Helles dal colore dorato, dall’aspetto pulito, dal profumo panificato ed erbaceo-floreale, dal gusto rotondo (privo di significative spallate amaricanti) e dalla bollicina viva, sottolineata da un corpo leggero coma la gradazione (siamo al 5%). Un profilo, quello di questa birra, che rispetta e mai urta le (per altro minime) affilatezze organolettiche del piatto in termini di sapidità e acidulità; e che, sul fronte della gestione della materia lipidico-carboidratica, esegue egregiamente il proprio lavoro, dando leggerezza al cavo orale dopo la deglutizione. Quanto alle interazioni olfattive, c’è il “connettivo” delle panificazioni a stabilire, tra morso e sorso, una continuità piacevole e confortante: che sa tanto di pranzetto contadino…
CON LA BLANCHE
Si passa alle alte fermentazioni, ma si resta alle basse latitudini alcoliche: ai 5,2 gradi della “Piuma”, la Belgian Witbier di casa “Styles”, realtà artigianale marchigiana di stanza a Monte Urano, in provincia di Fermo. Una bevuta agile, guizzante: colore paglierino velato e schiuma bianca; profumo di pane appena infornato e fiori (tiglio), frutta (pera, banana) e spezie (in primis il coriandolo e la buccia d’arancia impiegate in aggiunta diretta); gusto dolceacidulo, corpo leggero, bollicina pimpante, di nuovo una sostanziale assenza di contributi amaricanti. E di nuovo una premessa che funziona; anzi, in questo caso, l’appena citata acidulità della sorsata va in sovrapposizione attenuativa su quella del boccone e, in alleanza con la propria effervescenza, governa al meglio carboidrati e grassi del testarolo. Infine, sul fronte olfattivo, il pomodoro (da un lato) e il binomio coriandolo-scorza (dall’altro) instaurano un dialogo assolutamente passabile, pur nella loro divergenza.
CON LA TRIPEL
Con l’ultimo “giro” restiamo nel perimetro delle alte fermentazioni belghe; ma compiendo un discreto salto in alto, quanto a gradazione (8,7%) e a densità sensoriale d’insieme: l’asticella è infatti quella della “Holy Trap”, la Tripel targata “Beer Belly”, brewpub emiliano con sede a Modena. All’occhio si qualifica con una massa liquida dorata e velata, sormontata da schiuma avorio; al naso esprime pasta di mandorle, frutta matura (pera), fiori (sambuco) e spezie (pepe, chiodo di garofano); al palato consegna una sorsata calda e avvolgente, una carbonazione tuttavia briosa e una chiusura asciutta: eppure, ancora una volta, priva di amaricature marcate e, anzi, orientata a una complessiva morbidezza. Ovvio il migliore risultato, da parte della bevuta, in termini di gestione delle componenti carboidratiche e lipidiche del boccone; prevedibile anche la buona interazione tra la rotondità della birra e gli argomenti sapido-aciduli del piatto; interessante poi (sulla falsa riga del secondo test) l’intreccio odoroso tra le speziature della birra e le dominanti olfattive del piatto, ruotanti attorno al timbro campestre del pomodoro. Al tirar delle somme, un accostamento meno simmetrico, date le esuberanze del “bicchiere”; ma che, tutto considerato, ci sta…
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