Anzitutto, i puntini sulle i… Non confondiamola con la “tortilla” messicana: ovvero una sfoglia circolare di farina di mais o granturco, impastata con acqua e non lievitata, quindi morbida ma sottile nello spessore. Né tantomeno, parlando di cucina tex-mex, c’è alcuna parentela con le “tortilla chips”: cioè quei piccoli triangoli di mais resi croccanti friggendoli o cuocendoli al forno. No, qui si parla della “tortilla” alla spagnola, talvolta indicata più specificamente come “de patatas”: ché infatti la sua ricetta prevede l’impiego del prezioso tubero (provvidenziale nelle economie povere, per le alte rese di coltivazione e il buon potere nutritivo) importato dal Nuovo Mondo in Europa, già a partire dai primi del Cinquecento, appunto nel contesto delle spedizioni coloniali messe in atto dai conquistatori iberici in Sud America. Un piatto divenuto iconico nel folclore del Paese del flamenco; uno spuntino che unisce l’informalità alla pienezza di gusto; e che si presta, con la birra, a una discreta molteplicità di abbinamenti.
LA STORIA
Stando a quella che probabilmente è una leggenda, la comparsa della tortilla sarebbe legata all’inventiva di un generale, Tomás de Zumalacárregui (1788-1835), annoverato tra i protagonisti in quella sorta di guerra civile intermittente che insanguinò a più riprese la Spagna nel corso del XIX secolo, contrapponendo gli eserciti dei “carlisti” (fedeli al ribelle Carlo Maria Isidoro di Borbone-Spagna) e le milizie “cristine”, queste ultime leali alla regina designata, l’infanta Isabella (la futura Isabella II) e alla reggente Maria Cristina di Borbone-Due Sicilie. Ebbene, l’alto ufficiale – un carlista, alle prese con la penuria dei suoi vettovagliamenti – avrebbe, in base a una versione del racconto, elaborato lui stesso la ricetta, pressato dalla necessità di garantire ai propri armati un pasto economico, rapido e sostanzioso. Secondo invece altre ricostruzioni, la preparazione sarebbe stata approntata, sempre per il generale, da parte di una contadina della Navarra: in ogni caso povera e costretta a fare del suo meglio con il poco che aveva. In realtà sembra che la pietanza possa essere originaria dell’Estremadura; e che i suoi esordi possano esser fatti risalire ai primi dell’Ottocento… prescindendo dalle dispute di successione al trono.
GLI INGREDIENTI E LAVORAZIONE
Così come diverse risultano le ipotesi circa la “genesi” della tortilla, altrettanto lo sono le numerose interpretazioni locali. Tra quelle “di base”, la piattaforma di elementi comuni è rappresentata dal “terzetto” di uova, patata e cipolla bianca; ingredienti da trattare come qui di seguito riportiamo in sintesi. I due ortaggi (prima il tubero, porzionato a cubetti; e dopo due o tre minuti il bulbo, tagliato a fettine spesse) vengono sistemati in una teglia, a bagno d’olio d’oliva, e cotti per un quarto d’ora circa, senza soffriggere. Quindi, dopo averli scolati con cura, si trasferiscono in una ciotola, nella quale si riversano anche le uova, una volta che siano state sbattute: e di buona lena, in modo da incamerare bene aria. A quel punto – aggiungendo a piacere sale e pepe: nel nostro caso con molto giudizio – si procede col mescolare il tutto, per poi scaldare il composto così ottenuto sul fornello, in una padella antiaderente: 10 minuti per far “dorare” un lato più altri dieci per quello opposto. Passo successivo? Nessuno: se non quello di assaggiare…
LA FISIONOMIA SENSORIALE
La consistenza del boccone è soffice, ma la densità sensoriale è più che discreta: perciò richiede una birra di pari vigore, benché non necessariamente densa nella corporatura. La materia lipidica e soprattutto quella amidacea, poi, non mancano certamente, nel piatto; al quale, perciò, è conveniente una sorsata in cui non siano latitanti le funzioni atte appunto alla “gestione” di grassi e carboidrati: da fluidificare, così da renderli meglio assimilabili, attraverso ad esempio una bollicina spigliata, una certa acidulità e magari pure una gradazione alcolica non ipocalorica. Inoltre la tortilla presenta una tendenza olfattiva di timbro tostato (da riprendere con una bevuta che abbia un indirizzo aromatico analogo); mentre al palato fa rilevare un gusto sostanzialmente dolce, con qualche assai dosata venatura di sapidità, piccantezza e di acidità (quest’ultima data dalla cipolla e dall’olio): un profilo che sconsiglia, nel bicchiere, amaricature eccessive, senza tuttavia farsi ossessionare dalla questione, perché, come appena sottolineato, le componenti potenzialmente conflittuali (sale, pepe eccetera) si fanno avvertire a livelli decisamente bassi. Insomma, la pietanza risulta alquanto versatile, negli abbinamenti: ed ecco qui i tre che abbiamo sperimentato nella circostanza.
CON LA WEIZEN
Si parte con un “peso leggero”, sotto il profilo alcolico: i 5,1 gradi della “Maisel’s Weisse”, la Hefeweizen targata appunto “Maisel” (a Bayreuth, in Baviera). Di colore ambrato (naturalmente velato), le sue tostature olfattive riprendono quelle della tortilla, mentre le altre sue qualità aromatiche (banana e chiodi di garofano) non prevaricano eccessivamente il carattere complessivo del boccone. Al palato poi la sorsata – acidula, pimpante nell’effervescenza e per niente amara – corrisponde quasi punto per punto al profilo ideale verso il quale ci siamo orientati.
CON LA BOCK
Proseguiamo di nuovo con uno stile tedesco (benché la produzione sia italiana), però a bassa fermentazione e di maggiore grado alcolico: sul palco sale la “Thuglife”, una Dunkles Bock da 6 gradi e mezzo firmata, a Folignano (Ascoli) dal marchio “Babylon”. Ramata e ben tostata, si allinea ancor più da vicino con le dominanti olfattive della tortilla; idem, la sua rotondità, essa stessa più abboccata rispetto a quella della Weizen, instaura un miglior dialogo armonizzante nel rapporto con le sapidità e le acidulità del boccone. Quanto alla capacità di sciogliere le densità lipidico-amidacee del piatto, la birra, pur facendo un passo indietro in ordine all’acidulità e alla carbonazione, ne compie uno avanti – come sottolineato – in termini di slancio etilico, portando a casa agevolmente la propria missione di riordino del cavo orale.
CON LA TRIPEL
Si sale ulteriormente con gli “ottani alcolici”: per l’esattezza fino ai 9.2 della “Furie’s Trip”, la Belgian Tripel della scuderia emiliana “La Buttiga”, a Piacenza. Dorata nel colore e ricca negli aromi, presenta essa stessa quel fondo tostato (con note di biscotto) che ben si aggancia alle medesime profumazioni della tortilla. Al palato poi, la sua bollicina aitante, la sua secchezza e appunto la sua gradazione lavorano decisamente bene sulla massa grassa e amidacea del piatto. Infine, sul piano gustativo, per la prima volta sperimentiamo una sorsata dotata di certa amaricatura: assai sorvegliata, però; e di certo non sufficiente a innescare frizioni di sorta con le “parti dure” del boccone (sapidità, acidulità, piccantezza): le quali, d’altronde, risultano a loro volta estremamente contenute.
BIRRIFICIO MAISEL
Hindenburgstraße, 9 – Bayreuth (Baviera, Germania)
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