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L'intervista

Marco Bolasco: “Il fine dining è intrappolato in un involucro di noia. Ripensiamo il concetto di trattoria”

11 Febbraio 2025
Marco Bolasco, editore di Topic Marco Bolasco, editore di Topic

Editore di Topic e giornalista gastronomico, già direttore della guida ristoranti del Gambero Rosso, Marco Bolasco manifesta da tempo un punto di vista critico sull’attualità dell’alta cucina, che virgoletta di mille distinguo. Per lui il fine dining non è morto, ma è sicuramente incartato in un bell’involucro di noia. Per chi ha vissuto i ruggenti anni 0 dell’avanguardia spagnola e italiana, lo sbadiglio è all’ordine del giorno.

Marco, cosa sta succedendo secondo te nell’alta cucina?

Penso che il modello di fine dining cui continuiamo a girare intorno sia superato. L’alta cucina in sé non morirà mai, come tante manifestazioni della fascia alta. Ma la ristorazione che per lungo tempo è andata veloce, ora sembra si stia un po’ avvitando su se stessa. Poi per carità il mondo va avanti, oggi ci sono una facilità di approvvigionamento e una velocità di comunicazione tali, per cui può essere vero che non si è mai mangiato così bene. Ma per la cucina d’autore occorrono anche altre cose: testa, visione, idee che intorno vedo poco. È un mondo chiuso in se stesso, che non sta pensando al nuovo pubblico. Albert Adrià ha appena detto sul palco di Madrid che il suo cliente medio ha un’età compresa fra 50 e 55 anni, mentre prima era settantenne. È già un progresso, ma come la mettiamo con il pubblico dei giovani, che non possono spendere 300 euro?

Di quale fine dining parli?

Di una ristorazione che continua a esistere, ma è sempre meno interessante. Quella basata sull’estremizzazione dell’esperienza esclusiva, figlia del paradigma bulliano. Perché cosa è venuto dopo elBulli? I nordici per me hanno rappresentato una rivoluzione mancata, vedo poco a quelle latitudini. La fermentazione è un elemento tecnico, ma il modello di esperienza non è riconducibile alla tecnica. Ora Adrià sta ragionando sul minimalismo, ma la sua rottura è avvenuta altrove. Adrià è stato colui che ha spostato l’asse dalla ristorazione classica verso il menu degustazione e l’esperienza a tavola, attraverso lunghe sequenze di piccoli bocconi, tanti elementi di sensorialità, ingredienti poveri messi alla pari con i ricchi e un mood generale di sdrammatizzazione, promuovendo un cambiamento epocale. Ma oggi da Alchemist, che dovrebbe rappresentare l’esperienza definitiva, hai una riedizione di elBulli in pompa magna, con 80 camerieri anziché 30, 60 piatti e non 40, 6 ore di esperienza a tavola. Però quello è.

Ci sono eccezioni?

Oggi in giro trovo poche cose interessanti; c’è da dire che esco anche meno, perché tutto costa troppo. Se vai a guardarti una guida Michelin degli anni ’90, scopri che il prezzo parametrato sul costo della vita è raddoppiato e in certi casi addirittura triplicato. È vero che tante cose sono aumentate, in primis i beni alimentari, che però sono cresciuti molto meno. Negli ultimi anni se c’è stato qualcosa di rilevante in Italia, credo sia stata la scelta da parte di alcuni giovani di dedicarsi al mondo della cucina tradizionale o meglio di territorio, quindi a modelli diversi dal ristorante stellato, ma anche dalla trattoria contemporanea, che alla fine è una derivazione dello stellato. Mi vengono in mente i fratelli Pavesi o Michele Valotti della Madia di Brione, ma anche le nuove generazioni che entrano in situazioni strutturate e le rinnovano, come i ragazzi della Brinca. Spesso si autodefiniscono “trattorie”, ma poi a Piacenza ti servono un grande piatto borghese come la bomba di riso su una bella ceramica con degli ottimi vini e il conto va di conseguenza. Ho l’impressione che stiamo definendo “trattoria” quello che non riusciamo a categorizzare in altro modo, secondo me è sbagliato. Locali come Trippa o Santo Palato forse vanno letti diversamente; non ci va chi si ferma in pausa pranzo, perché banalmente non troverebbe posto. 

Qualcuno, riferendosi soprattutto alle gastronomie emergenti, sostiene che il futuro del fine dining sia negli alberghi

Lo chiederei a Niederkofler, ma forse all’estero può essere vero. In Italia qualcuno è attento, vedi Ducasse a Roma o l’operazione Bulgari con Niko Romito, che dirige ristoranti semplici di lusso, dove mangi l’antipasto all’italiana, il risotto allo zafferano e la cotoletta, tutta una cucina da trattoria borghese servita a prezzi rispettabili. Spesso gli chef sono chiamati per fare cose abbastanza accessibili sotto il profilo concettuale, ma resta vero che in alcuni casi la ristorazione d’albergo è più sostenibile, perché serve a riempire le camere.

La crisi del fine dining va di pari passo con la contestazione della critica gastronomica e l’insofferenza verso il paradigma Michelin

Quindici anni fa ho lasciato il mestiere di critico gastronomico per fare altro e non me ne sono pentito. Nel settore c’è un problema, non è facile svolgere la professione in modo soddisfacente. Mancano le condizioni economiche e un investimento reale. Ma io sono cresciuto in una dimensione in cui il giornalismo gastronomico era ascoltato e influente, oggi non è più così. Sono più potenti i cuochi dei giornalisti. Eppure sono mondi che vanno a braccetto, se arranca uno, non ride neanche l’altro.

 

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