di Maddalena Peruzzi
Chef Due stelle Michelin, appena nominato Ristoratore dell’anno dal Gambero Rosso, che ha anche attribuito le ambite Tre Forchette al suo ristorante veronese Casa Perbellini.
Giancarlo Perbellini è imprenditore con una galassia di locali e ristoranti a firma sua in giro per l’Italia e per il mondo, alcuni dei quali aperti in piena pandemia. Divulgatore con varie pubblicazioni sullo scaffale, ma prima di tutto un uomo con molti sogni nel cassetto “perché per realizzare qualsiasi cosa bisogna prima saperla sognare”.
Iniziamo dai sogni in fase di realizzazione: l’inaugurazione del Ristorante e del Café Trussardi alla Scala a Milano by Giancarlo Perbellini. C’è una data?
“Avrebbe dovuto essere a fine settembre, ma non è stato possibile perché sono insorti alcuni contrattempi. Se tutto va bene dovremmo aprire a novembre. Incrociamo le dita”.
Oggi ha dieci locali, anche molto diversi tra loro. Come si tiene insieme un sistema così articolato senza perdere il controllo della situazione?
“A parte quelli che gestisco direttamente, negli altri locali ho dei soci, molti dei quali hanno precedentemente lavorato con me. Alla base di tutto c’è un grande rapporto di fiducia, fondato su una reciproca, profonda conoscenza. Siamo un gruppo formato da tanti elementi diversi, ciascuno con la propria identità, la propria personalità. Anime diverse, stessa qualità. E penso che sia proprio questa la chiave del nostro successo”.
Si considera più chef o più imprenditore?
“Sono ancora un cuoco. Se fossi più imprenditore farei meno fatica, me lo dice sempre anche mia moglie. Però se sono arrivato fino a qua forse è proprio perché ho saputo coniugare bene le due cose”.
Cosa l’ha spinta verso l’imprenditoria? Non sarebbe stato più comodo adagiarsi sugli allori del ristorante di successo che già aveva a Isola Rizza?
“È nato tutto in maniera molto spontanea, senza grandi progetti a monte. Erano gli anni Novanta e io e i miei soci di allora eravamo animati dal desiderio di realizzare qualcosa di nuovo e diverso, allargando la forbice della clientela. Poi, quando ci siamo divisi, mi è venuta l’idea di coinvolgere i ragazzi che lavorano con me e da lì hanno preso vita tante cose in giro per l’Italia e per il mondo”.
E ovviamente c’è il suo ristorante due stelle Michelin Casa Perbellini, aperto nel 2014 in piazza San Zeno a Verona dopo aver chiuso quello di Isola Rizza. Cos’è cambiato tra l’uno e l’altro?
“Sono cambiate tante cose. Fino a dieci anni fa nei ristoranti gourmet si pagava molto senza rendersi conto del perché. Casa Perbellini ha la cucina tutt’uno con la sala, non c’è nemmeno il vetro, perché voglio che il nostro lavoro sia sotto gli occhi di tutti, voglio mostrare alle persone che per realizzare un piatto a volte servono quattro teste, otto mani. Il menù è frutto dello studio e del lavoro di una grande squadra ed è giusto che si veda. Questo chiaramente complica tutto, perché lavoriamo completamente a vista, non abbiamo celle frigorifere e nemmeno “un retro” in cui salvarci se commettiamo un errore o andiamo in affanno. Siamo come equilibristi senza rete di protezione”.
La pandemia non l’ha per niente fermata…
“Abbiamo aperto la Locanda Perbellini al Mare, sulla spiaggia di Bovo Marina in provincia di Agrigento a giugno del 2020 e la Locanda Perbellini Ai Beati a Garda, a maggio 2021. Ma non è stato facile: quando abbiamo inaugurato Ai Beati per la normativa Covid si poteva mangiare solo all’esterno e quel maggio, di sera, faceva freddo! A cena non si presentava nessuno. Per fortuna poi le cose sono andate bene. Ma la pandemia è stata un bel colpo, alcuni progetti che avevamo non sono andati in porto”.
Tante aperture, tante scelte anche coraggiose. Ha mai paura di sbagliare?
“Tutto quello che ho fatto fino ad adesso l’ho fatto insieme a mia moglie. Lei non è solo la mia metà, è il 51 %. Davanti a ogni bivio ha sempre avuto grande intuito, l’ultima parola è sempre stata la sua. Sono in buone mani, mi sembra”.
In base alla sua esperienza, per realizzare grandi cose ci vuole anche fortuna? O basta il talento?
“Prima di tutto devi essere bravo, perché se non lo sei prima o poi viene fuori. Poi un po’ di fortuna ci vuole sempre. Se non avessi preso le Due Stelle nel 2002 a Isola Rizza probabilmente l’anno dopo avrei dovuto chiudere, perché non ce la facevo. È stata bravura? Certo, ma ci è voluta anche la fortuna di prenderle in quel momento. È sempre un insieme di cose”.
Il podio dei suoi piatti-icona?
“Il primo è il wafer di sesamo con tartare di branzino, caprino all’erba cipollina e sensazione di liquirizia, che non è mai uscito dalla carta negli ultimi vent’anni. Il secondo è il caviale affumicato e zabaione ghiacciato. Il terzo è il risotto mantecato al profumo di cannella e maialino croccante, una rivisitazione del risotto al tastasal che faceva mio nonno Ernesto”.
Cos’è cambiato nella ristorazione, negli ultimi dieci anni?
“Tutto. È proprio cambiato il modo di mangiare, a partire dalle quantità. Tranne in Sicilia, là le quantità non sono cambiate. A me le porzioni sembrano eccessive, ma Giacomo (Vella, lo chef di Locanda Perbellini al Mare, ndr) mi dice sempre: “Chef, le quantità non si toccano”. E in effetti i piatti tornano in cucina sempre vuoti”.
La cucina è più scienza, più artigianato o più arte?
“La cucina evolve verso la scienza, ma rimane una cosa da artigiani, perché l’artigiano conosce la materia e la sa interpretare al meglio, in virtù dell’esperienza. La scienza ti porta fino ad un certo punto, ma poi si ferma, non ti permette di andare oltre. Nel mondo dei lievitati, ad esempio, ormai tutto è andato verso la scienza, ma il livello dei lievitati di alcuni artigiani, con la sola scienza non si può raggiungere”.
Tre piatti per cui va pazzo?
“Il risotto in generale. Poi un ingrediente: il pomodoro. Una volta era proprio una fissazione. Era anche un po’ la mia firma, diciamo. Adesso rimane un ingrediente che secondo me non dovrebbe mancare mai. Poi i dolci, vivrei di dolci, ma qua a Casa Perbellini i miei ragazzi (indicando la brigata, ndr) mi tengono a stecchetto”.
La cosa peggiore che le sia capitato di assaggiare?
“Non posso dirlo”.
Vino o birra?
“Entrambi. Ma vino tanto (Ride, ndr)”
I soldi non fanno la felicità. Vero o falso?
“I soldi mi hanno permesso di realizzare tante cose. Aiutano, sono uno strumento. Ma non ne ho l’ossessione e non mi interessa il lusso fine a se stesso”.
Nel piatto e nella vita l’estetica conta?
“Conta l’etica, l’estetica è l’ultima delle cose. Meglio un grande piatto brutto che una cosa bella che non sa di nulla”.
Una cosa che non sopporta?
“La troppa confidenza inopportuna. Gli sconosciuti che mi toccano o quelle persone che mi si avvinghiano quando mi chiedono di fare una foto insieme. È una cosa che mi mette molto a disagio”.
(Giancarlo Perbellini premiato come ristoratore dell’anno – ph Francesco Vignali)
Livello da uno a dieci. Quanto è esigente?
“10”
Divertente?
“Sul lavoro, poco”
Sportivo?
“9, ma qui al ristorante mi concedono solo due ore alla settimana”
Stressato?
“11”
In chiusura ci racconta un aneddoto della sua vita da chef?
“Sono i primi anni Novanta, un giorno nel mio ristorante di Isola Rizza entra questo signore vestito da lavoro e con le unghie sporche di nero. Dalla sala allarmati mi dicono: “è arrivato uno che ha sbagliato posto”. Ma, parlando con lui, capisco che è stato in tutti i più grandi ristoranti d’Europa. Il signor Bottazzi era un grande Gourmet. Una volta, me lo ricorderò per tutta la vita, gli ho preparato una lepre con una crema di foie gras. Quel piatto me l’ha rinfacciato per anni, con il suo indimenticabile dialetto vicentino “te si un delinquente!”. Non gli era piaciuto (Ride, ndr). Invece la prima volta che ha assaggiato il mio wafer di sesamo mi ha detto “questo è un piatto da tre stelle”. Era un tipo molto particolare, purtroppo è mancato qualche tempo fa. Ecco, da lui ho imparato una volta per tutte che non si giudicano mai le persone dall’aspetto”.