Eleonora Cozzella ormai da qualche mese è la nuova direttrice de Il Gusto di Repubblica. E, tra mille impegni, riusciamo a ritagliarci un quarto d’ora di una sana chiacchierata tra colleghi che non si vedono da tempo. Lei in smart working in Toscana “con le escursioni termiche finalmente a dare sollievo”, mentre in Sicilia l’afa non da tregua.
Eleonora, c’è già il tuo “zampino” sul nuovo numero de Il Gusto?
“Sì, qualcosa si è vista con il numero di luglio. Come redazione abbiamo voluto puntare i riflettori ancora di più su quei talenti di cui non si parla molto spesso, abbiamo voluto dare voce a tutte le voci. Ma soprattutto tenteremo di fare scouting, ossia far emergere quelle professionalità, giovani e non, che hanno idee giovani, nuove formule. Il mondo dell’enogastronomia è in continua evoluzione e le novità servono sempre. Vogliamo rimanere al servizio del lettore”.
Che giornale hai trovato?
“Un giornale pieno di professionalità, di entusiasmo, competenza e preparazione. Sono le persone con cui lavoro da anni, una squadra forte con i piedi belli fermi sulla loro immensa preparazione”.
A proposito di preparazione, forse è quella che manca a chi scrive di enogastronomia…
“Sì, c’è tanta impreparazione. Ma non è colpa di queste persone. Temo sia un problema generazionale”.
Spiega…
“Non manca la passione, manca la voglia di scoprire e conoscere. Mancano le basi. Ormai la cultura si fa online, e c’è meno coscienza, invece, di quanto conti la storia, anche recente, in tutto”.
Quindi non si studia…
“Vedo dei giovani, anche bravi, che si innamorano di questo mestiere e dell’enogastronomia che per loro poi è una novità e che magari sono cose che io ho già visto e di cui ho scritto 20, 25 anni fa. Non è un difetto essere giovani. Ma se ti piace una cosa vai a studiare ciò che era, per conoscerla e possederla. Nella musica o nel cinema non succede…”
In che senso?
“Chi ama la musica, studia tutto quello che riguarda la musica, andando a ritroso nel tempo. Così gli appassionati di cinema. Invece probabilmente a causa del fatto che tutti mangiamo in Italia particolarmente bene, non ci si pone il problema dell’aspetto storico-culturale del cibo. Ecco il problema è quello: più che il non saper scrivere, non avere contezza della storia dell’argomento”.
Domanda spinosa: le guide hanno ancora un senso?
“Se le leghiamo a quanto detto prima sì: ossia se sono veramente affidabili e autorevoli perché fatte da persone affidabili e autorevoli. Si scrive per i lettori e non per il cuoco di turno”.
Quindi continueremo a farle e leggerle?
“Le guide devono riuscire a captare quelle che sono le tendenze. Ma non nel senso di una cosa “trendy”. Invece cercare di intuire verso dove sta andando il desiderio delle persone. Dopo il Covid, ad esempio, mi pare chiara come sia emersa la predilezione alla convivialità e semplicità anche nell’alta cucina. Le guide, se sapranno stare al passo con i tempi, ad avere sintonia con i lettori, ad essere credibili e affidabili, allora avranno un senso. Poi ogni guida ha una sua specificità”.
Per esempio?
“La Michelin è dedicata ai viaggiatori; quella dell’Espresso all’alta cucina; quella delle osterie di Slow Food è un capolavoro di affidabilità sugli indirizzi dei locali che propongono piatti della cucine regionali. Anche la The World’s 50 Best Restaurants, che non è una guida, ha avuto però una visione ben precisa di avanguardia e di apertura all’altro in ogni senso. Fino a 10 anni fa era impossibile pensare che dei ristoranti peruviani, per esempio, potessero essere alla pari o superiori a dei ristoranti italiani o francesi; oppure ha dato luce alle cucine indigene, native, dall’Australia alle popolazioni sudamericane. Ha avuto il merito di aprire un mondo di maggior apprezzamento per le radici, tradizioni e cultura di altri popoli”.
Quindi?
“Le guide non moriranno, se mi chiedi questo. Ho fiducia nel lettore. Loro sanno sempre distinguere chi è affidabile. Abraham Lincoln disse: “Potete ingannare tutti per qualche tempo e qualcuno per sempre, ma non potete ingannare tutti per sempre”. Ecco credo che alla lunga, competenza, affidabilità e trasparenza vincono sempre”.
E la Michelin ti convince ancora?
“Conquistare una Stella è un po’ come vincere una medaglia alle Olimpiadi, se sei uno sportivo, o conquistare il premio Strega se sei uno scrittore. Ma bisogna distinguere il riconoscimento dell’obiettivo. Se sei soddisfatto del tuo lavoro, lo fai al meglio delle tue possibilità, mettendoci tutte le energie che possiedi, giustamente sei felice se conquisti la stella Michelin. Ma se lavori solo per quella, allora occhio che può essere un boomerang”.
Quindi niente ossessione?
“Ci sono chef che lavorano per la stella conformandosi a standard che loro reputano da stella e che magari non lo sono. Lavorare solo per la Stella non fa bene. Se arriva, è bello. Chi non sarebbe felice? Poi ci sono quelli che si disperano e che meriterebbero di averle. E io ne conosco tantissimi. Ma va bene così”.
Come sta la cucina italiana?
“Sta molto bene. Ha un foltissimo gruppo di cuochi e cuoche che stanno rendendo onore alla nuova cucina italiana. Che, badate bene, non si intende strana o inedita. E’ un modo nuovo di presentare i sapori che si confanno alla nostra identità”.
E quelli che dall’alto del loro sapere inneggiano a un ritorno alla tradizione?
“Ma che vuol dire? Non vuol dire niente. Se parliamo di piatti classici, ok. Ma la tradizione, per definizione, va avanti. Ho un ricettario di mia nonna che è nata nel 1901. Alcune sue ricette oggi sono impossibili da replicare. A partire dai prodotti che non più come quelli di una volta. Pensa a una carne di maiale che venivano allevati allo stato semi-brado e che quindi necessitava di determinati passaggi che oggi sono inutili. Ma anche gli ortaggi sono diversi. Le melanzane per esempio, prima necessitano di stare con sale grosso per perdere l’amaro. Oggi invece ricerchiamo quel poco di amaro che ancora hanno”.
Quindi che vuol dire tradizione?
“Nessuno si è mai inventato una ricetta. Gli chef hanno casomai modificato le esperienze fatte. Hanno grande cultura fatto di vita vissuta, hanno studiato tantissimo, hanno un bagaglio culturale creato grazie alle loro esperienze. Le tradizioni che hanno dentro si evolvono. Semmai il discrimine è tra tradizione e tradimento”.
Cosa tradisci?
“La cucina del passato. Se fai una pasta al pomodoro, ma ci metti un olio scarso, pomodoro di bassa qualità e usi pasta fatta in maniera poco accurata, otterrai di certo una pasta al pomodoro all’apparenza come quella tradizionale. Ma il sapore come sarà? Questo è un tradimento. Viceversa, un grande chef che magari questa pasta al pomodoro la fa sferificata, ma utilizza materie prime di altissima qualità ha fatto una sua pasta al pomodoro, ma dal sapore come comanda la tradizione”.
Te la senti di farmi qualche nome di chef da tenere d’occhio nel prossimo futuro?
“Ti dico Simone Caponnetto chef del Locale di Firenze; Andrea Antonini dell’Imago di Roma; Davide Guidara de I Tenerumi di Vulcano; Candida Di Pierro del Gallery Bistrot Contemporaneo di Troia in Puglia; ma ti dico che sarà la Calabria la regione protagonista e che ci stupirà. Ha una serie di giovani incredibili: da Luigi Lepore, a Luca Abbruzzino, ma anche Caterina Ceraudo, Antonio Biafora e Nino Rossi. Ne sentiremo parlare a lungo”.