Arriviamo a Menfi e raggiungiamo la vecchia stazione ferroviaria dismessa, uno degli edifici della Settesoli, cantina sociale tra le più grandi del Sud Italia da tre anni guidata da Vito Varvaro, siciliano di ritorno da una lunga esperienza professionale in giro per il mondo. Il presidente è in un'altra palazzina che ospita gli uffici. Tutto attorno è un cantiere segno di un dinamismo che è linfa vitale.
Varvaro conclude una delle sue lunghe riunioni con un folto numero di collaboratori. Da quando è presidente le riunioni sono imprescindibili nelle lunghe giornate di lavoro. “È un metodo, un approccio con cui ho deciso di condurre l'azienda. Per me è fondamentale il confronto costante e serrato con tutti”, esordisce.
Ecco, partiamo da qui. In Settesoli si percepisce un approccio manageriale forte, non si sente una mosca bianca in Sicilia?
“Sicuramente, io non riesco a trovare manager in Sicilia che possano venire a lavorare. Le aziende familiari non creano management. Gli unici che trovo sono siciliani che lavorano in grandi gruppi all'estero o nel resto d'Italia e che cerco di riportare qui”.
Cercate nuove risorse in questo momento?
“Cerco giovani che abbiano 5-10 anni di esperienza nel commerciale, nel marketing, meglio se legato all’alimentare. Ragazzi disposti a vivere fuori per il commerciale, ma anche giovani esperti nell’area sistemi informativi, nella logistica e nella produzione. Insomma un po’ tutte le funzioni. Serve una squadra completa, la squadra va rafforzata”.
E quindi quali mosse?
“Oggi bisogna parlare l’inglese e uscire dal contesto dove si è cresciuti. Andare a studiare fuori va bene, il problema è come fare tornare questi giovani bravi. In Settesoli sto cercando di creare una squadra di manager fra i 30 e i 40 anni, provando ad attrarre siciliani che sono stati fuori e vogliono tornare”.
Il presidente di Settesoli come una mosca bianca. E allora come va il dialogo con le altre aziende per fare sistema?
“Non ho dedicato molto tempo a fare network con le altre aziende, ora con la Doc dovrò lavorare insieme agli altri. Le aziende familiari siciliane sono di buona cultura. I vari Rallo, Planeta, hanno viaggiato, parlano inglese, conoscono il mondo. È chiaro che se mi confronto con le cantine cooperative mi trovo in difficoltà. È complicatissimo portare in queste ultime realtà una cultura manageriale. Le cooperative sono ancora gestite dagli agricoltori e oggi non è ammissibile”.
Vittorio Nisticò, il mitico direttore del giornale L’Ora divideva in siciliani in due categorie, quelli di scoglio e quelli di mare aperto. Lei è…
“Sono di mare aperto, ma stare sullo scoglio ha anche tanti vantaggi. Penso si debba trovare il giusto equilibrio. Sono voluto andare via, sono andato in mare aperto e ora sono tornato al porto…”.
Ma la Sicilia del vino come sta allora?
“Tutto sommato bene. Ma la Sicilia ha un problema. Le dimensioni aziendali. C'è una tendenza secondo la quale l’azienda piccola, familiare, è il modello ideale del mondo del vino. Non è che non sia un buon modello, ma è un modello che non ci porta lontani. Se la Sicilia avesse un’azienda che vendesse nel mondo cento milioni di bottiglie, saremmo molto più forti. Presentare l’azienda piccola come un esempio di successo è un errore concettuale nel mondo della globalizzazione. E non è neppure detto che l’azienda grande non faccia buon vino. Io per esempio sono impegnato nel comunicare che la Settesoli può fare del vino migliore di una cantina piccola”.
E come sta invece il vino italiano?
“Il vino italiano sta bene perché c’è grandissimo interesse. C’è una parte dell’Italia come il Veneto e la Toscana che è 50 anni avanti rispetto alla Sicilia. Non per la capacità di saper fare vino ma per la capacità di saper fare un prodotto unico che si differenzia nel metodo di vinificazione e nei processi produttivi generali. Esempi come Prosecco, Amarone hanno una storia distintiva e unica. Poi c’è un Sud d’Italia che ancora non ha ancora trovato un vitigno di successo o un metodo di successo”.
Però puó essere un’opportunità?
“Certo, ma bisogna lavorare di squadra. La Doc Sicilia per esempio è un’opportunità, ci darà la possibilità di fare comunicazione, ma dobbiamo riflettere su quale sia il prodotto siciliano che vogliamo vendere nel mondo. Il Nero d’Avola è stato banalizzato dandolo a tutti, vendendolo da uno a sei euro. Non c’è stato un piano coordinato di comunicazione e un modo per tenerlo a livelli di prezzo sostenuti. La Doc deve fare un grande lavoro, ci vorrà molto tempo, almeno dieci anni”.
In tre mosse, qual è il futuro a breve di Settesoli?
“Rafforzare la vendita in Italia e nel mondo dei due marchi più importanti che abbiamo, Mandrarossa e Settesoli, ultimamente riveduti con offerte competitive. Rafforzare l’organizzazione e i processi: abbiamo rivisto tutto da quando sono arrivato io. La terza mossa è fare in modo che la Doc Sicilia ci consenta di vendere di più e a prezzi più alti. L’obiettivo è ogni anno aumentare il reddito ad ettaro per i soci, al momento fermo a 4.000 euro”.
La comunicazione quanto è importante?
“Importantissima, ma il mondo del vino non ha grandi margini. Anche un’azienda come Settesoli può fare comunicazione, e noi in Italia stiamo investendo molto, ma non abbiamo le risorse per farlo nel mondo. Per un piano comunicazione in Usa per esempio servirebbero 2-3 milioni l’anno. Una cooperativa non ce li ha”.
Cosa cambierebbe in Settesoli?
“C’è soprattutto un problema di governance aziendale. Noi abbiamo uno statuto vecchio che vorrei rivedere. Non è previsto un amministratore delegato, è previsto un consiglio fatto di soli soci, mentre a me piacerebbe vedere un cda dove si possa mettere uno come il professore Attilio Scienza, per esempio, qualcuno cioè che porti competenze ed esperienze. Gli agricoltori cosa possono aggiungere una volta portata l’uva in cantina? Per questo sto studiando le cooperative del Nord che sono molto più avanti”.
E se avesse la possibilità di investire, come si muoverebbe?
“Aprirei due sedi, una negli Stati Uniti e una in Cina, i due mercati più grandi del mondo del vino”.
Il mondo dell’informazione enologica e delle guide come lo vede?
“Sicuramente è un settore che contribuisce a fare cultura del vino, ma per chi fa 100 milioni di bottiglie non è proprio il centro del mondo. La massa è ancora molto lontana dall’avere una cultura del vino. C’è ancora moltissimo da fare, la nicchia però sta crescendo. E poi c’è troppa autoreferenzialità, parlano sempre gli stessi e si parlano addosso. Ha mai visto un articolo sui suggerimenti per chi deve acquistare allo scaffale del supermercato?”.
F. C.