Dalla sua prima volta tra le bollicine francesi, quando era ancora piccolo ad oggi. Tra storia, segreti e prospettive, Beneventano della Corte si racconta al nostro giornale
di Alessandra Meldolesi
C’è un tunnel segreto che unisce la Sicilia alla Champagne: l’ha scavato Roberto Beneventano della Corte, che continua a ripercorrerlo ogni giorno nella sua attività di distributore, produttore e raffinato connaisseur. Rampollo di una famiglia aristocratica catanese, gli ha dedicato tutta la sua vita, dopo aver frequentato l’Università Bocconi e aver ricoperto per breve tempo l’incarico di assistente in Scienza delle Finanze. “In primo luogo perché mia madre era francese, per la precisione parigina. Di conseguenza lo Champagne è sempre stato una presenza familiare. Papà era astemio, ma il primo ricordo della mia vita è quando con lei mi ha intinto il ditino e mi ha bagnato le labbra. Un flash: ai bambini fanno sempre effetto brillantezza e pétillant. Allora era un vino che si versava nelle coppe, mentre oggi si privilegiano flûte panciute e strette in cima, che esaltino vista e profumi; e si usava per brindare, anche con un dessert perché era molto più dosato. I brindisi hanno continuato a cadenzare tutti i momenti più importanti della mia vita, anche se sono sempre andato un po’ di fretta. Devo ringraziare lo Champagne, un veicolo di relazioni straordinarie, che mi ha fatto incontrare le persone più disparate. Restano tutte affascinate, compresi gli astemi”.
“Quindi ero già un cultore quando si è presentata l’occasione per il tramite di un amico francese. Sono entrato nel ramo con entusiasmo, lavorando per marchi Seagram come Heidsieck Monopole e Perrier-Jouët. Poi nel 1996 ho ripreso un’attività di famiglia, che apparteneva al ramo di mia madre. Il marchio Steinbrück era nato nel 1880 da una famiglia di origine tedesca che viveva Nizza. Possedeva alberghi molto importanti come il Grand Hotel d’Angleterre sulla Promenade des Anglais, dove soggiornavano Guglielmo II e Churchill… Avevano deciso di costruire una propria cuvée, che per la prima volta fu servita proprio al Kaiser. Poi la famiglia si estinse, l’ultima discendente era una mia zia diretta e ho deciso di riprendere marchio e produzione”.
“Tecnicamente siamo marque d’acheteur o marque auxiliaire: significa che siamo partner di una casa di Champagne, che accontenta ogni nostro desiderio. Abbiamo una decina di cuvée e distribuiamo altrettante aziende, in modo da offrire ai nostri clienti la possibilità di scegliere a 360 gradi fra le varie tipologie, brut, rosé, millesimati, e i diversi territori, dall’alta Montagna di Reims all’Aube e alla Côte des Bar. In quest’ottica stiamo per uscire con quello che è sempre stato un mio sogno: uno Champagne con sei uve, Chardonnay, Pinot Noir, Meunier, Arbanne, Petit Meslier e Pinot Blanc. È già in cantina che riposa, dopo il dégorgement. Uscirà credo a settembre in edizione limitata, per festeggiare il venticinquesimo anniversario della fondazione, con il nome 6 Magnifiques”.
“Ogni anno a fine gennaio partecipo personalmente all’assemblaggio, con la scelta dei dosaggi, che possono variare per alcune cuvée e per i millesimati. Poi ho occasione di degustare il risultato come minimo dopo 3 anni, che per le cuvée possono diventare 14, ed è sempre una scoperta. Avrò partecipato a una cinquantina di vendemmie ormai, ma imparo sempre qualcosa quando affianco, in modo abbastanza silente, lo chef de cave e i suoi collaboratori che compiono il miracolo. Un momento per certi versi drammatico, perché non ammette possibilità di correzione”.
“La tendenza oggi va verso vini dritti, secchi, verticali. Ma gli Champagne non dosati possono risultare difficili da bere, specialmente per i palati meno evoluti, e incostanti se manca l’equilibrio nel dosaggio. Allora devono maturare anni e anni prima di arrivare al consumatore, che se può vantarsi di bere un pas dosé, spesso non ne resta totalmente soddisfatto, contrariamente agli addetti ai lavori e ai grandi gourmet, sempre in cerca di nuove sensazioni. Una delle nostre linee, Paul Louis Martin, si sta convertendo interamente al pas dosé, ma è un esercizio difficile. La nostra scelta è piuttosto quella di proporre un range di cuvée che possano meravigliare, con il demi-sec che ogni tanto ritorna. Personalmente sono abbastanza contrario, perché se ci riempiamo la bocca di finezza, eleganza, scarsità di tannini, poi non ha senso un dosaggio importante, che appesantisce il sorso. Ma può esserci una piacevolezza per alcuni palati. A mio parere non esiste lo Champagne della vita: un grande Champagne può essere il migliore del mondo, dipende tutto dall’abbinamento, dal momento, dalla compagnia”.
“Fra le altre tendenze citerei l’orientamento crescente del mercato italiano verso le cuvée speciali di alta gamma, un mercato per intenditori, che vivono lo Champagne come un vino; non bevono lo Champagne, ma gli Champagne. Poi la crescita del rosé, che oggi copre il 6,6% del mercato. E la riscoperta delle vecchie annate, che riservano grandi sorprese. Abbiamo appena finito di degustare un 1973, buona annata, con la bolla vivace. Ma io ricordo ancora un 1889 in magnum non degorgiato. Strepitoso. A livello di mercati si segnala la continua crescita delle vendite fuori dalla Francia, che un tempo si accaparrava l’80% delle bottiglie, oggi il 46. In particolare i mercati terzi fuori dall’Europa sono al 27, grazie alla crescita straordinaria della Cina, il cui mercato è prossimo alla Francia, ma difficile da aprire, e dell’Australia, che la serve”. “Personalmente metto lo Champagne ovunque, ma non lo sacrificherei mai in un cocktail o in cucina. Per sfumare un risotto o aiutare una carne bianca si può usare dell’altro. Invece mi piace versare un goccio di blanc de blancs nella tartare di carne, al posto dell’acqua frizzante. Su una buona fiorentina bevo quasi esclusivamente Champagne blanc de noirs della Montagne de Reims, e anche sul dessert non mi dispiace un bel rosé, per esempio la nostra cuvée Les Étoiles de la Gastronomie, destinata ai ristoranti stellati, che amo definire ‘eclettica’”.
“Nel mondo si producono metodo classici straordinari, ma lo Champagne resta unico grazie al terreno e al clima. Il surriscaldamento inizia a manifestarsi, è vero. Ed è uno dei motivi per cui è nato Cinq Sens: le uve rare oggi ricoprono appena lo 0,3% della superficie vitata della regione, stuzzicano la curiosità, ma si adattano anche al caldo. Non a caso sono state relegate nel sud, quali gregarie dello chardonnay. In Italia sono affascinato dalla Franciacorta, dove pionieri come Zanella, conoscendo e amando lo Champagne, sono riusciti a realizzare prodotti straordinari. Poi i Cava spagnoli, i Napa californiani… In giro si fa un gran parlare della produzione del sud dell’Inghilterra, che avrebbe un terreno e un clima affini alla Champagne. Ma se c’è una cosa che mi ha deluso è proprio lo spumante inglese, che ha un prezzo finale elevato, ma manca clamorosamente di savoir-faire. La Sicilia la amo in modo viscerale, ma conservo qualche remora sulla spumantizzazione. Anche se ho bevuto uno Scamacca del Murgo del 2000 che mi ha impressionato. La presenza francese sull’isola si è materializzata in molti modi, fra le tante contaminazioni di arabi, normanni e spagnoli. La mia famiglia ne è un esempio, con una bisnonna e una trisnonna d’oltralpe. E i famosi monsù hanno creato piatti leggendari seguendo quell’impronta. Sono convinto che la cucina siciliana sia attrezzata per essere abbinata allo Champagne, dall’arancina alla Parmigiana, alla caponata, soprattutto quella originale al cacao, fino alla pasta alla Norma. Tanto che vorrei ripetere una cena a tema che organizzai con Pino Correnti”.
“Certo col Covid c’è stata una flessione anche in Italia, in linea con il mercato europeo, soprattutto a causa della chiusura dei ristoranti e dei bar. Ma ci ha stupito il consumo casalingo: nonostante non ci fosse niente da festeggiare, tanta gente ha scelto di consolarsi con un calice di Champagne. Penso che quest’anno saremo in linea con il 2020, poi l’Italia potrà riposizionarsi dagli attuali 7 a 8 milioni abbondanti di bottiglie l’anno”.