Giacomo Tachis e Franco Maria Ricci
Ventiquattro calici di vino. Per celebrare le eccellenze italiane. E l’autore che le ha firmate: Giacomo Tachis.
“L'uomo del Rinascimento enologico italiano nel mondo”, il “principe dell'enologia”, l’artefice e l'inventore di grandi vini come Tignanello, Solaia, Sassicaia, il Duca Enrico, il Turriga e il “Milleunanotte” e altri ancora. Ventiquattro fragranti calici offerti al naso di una platea qualificatissima. Ma l’unico vero, chiaro effluvio ad esalarsi da quei calici, è stato un sentimento: la commozione. Quel dolce, odoroso e malinconico turbamento dell’anima che muove l’ impulso dell’affetto. E’ successo al “Bibenda day” la festa del vino italiano che Franco M. Ricci mirabilmente organizza al “Rome Cavalieri”. Cinquecento e oltre i convenuti, tra amici, produttori e “Tachis Boys”. Tra cui molti nomi nobili e altisonanti come Piero Antinori, Carlo Guerrieri Gonzaga, Coralia Pignatelli, Luca di Napoli Rampolla. Per dire grazie a un grande “mescolavino”, come lui, con boriosa umiltà, amava sempre definirsi. Tachis ha infatti sempre conservato l’umiltà di un contadino ottocentesco. Lo ha sempre irritato tutto ciò che si proiettava nell’enologia futuristica. Odia parlare di genomica e di osmosi inversa. E ancor più di viticultura del terzo millennio. Il terzo millennio lo prendeva in considerazione solo quando si riferiva a quello avanti cristo. Lì trovava le radici dell’enologia moderna. I suoi studi, i suoi libri, le sue curiosità coltivate solo sui classici del passato «Ė uno studio basilare quello della “cultura del passato” – ama sostenere -. I siciliani soprattutto devono tenerlo presente. Fenici, Greci, ma anche gli Etruschi, sostenevano che il vino ama il respiro del mare e questo è verissimo ancora oggi». Un piccolo Tachis-pensiero dalla summa dei suoi saperi che ha riversato in parte nel suo libro “Il vino dell'anima. Manuale tecnico filosofico sull'ebbrezza divina”. Un’opera da affidare ai posteri, gli enologi di oggi e quelli del domani.
Tachis ha deciso di lasciare la scena qualche mese fa e la sua salute, così e così, per adesso non consente ripensamenti. Doverosa una cerimonia di commiato. Ma più che un saluto è stato un boato di gratitudine e di commozione. Una standing ovation di oltre cinque minuti per il padre della vitivinicoltura italiana nel mondo. Il tutto incastonato in una data: sabato 14 maggio 2011 anno delle celebrazioni dell’unità d’Italia. E stesso mese e giorno della vigilia della battaglia di Calatafimi. La sigla per questa cerimonia, non poteva non essere che l’inno di Mameli. Interpretato dal vivo, con struggente passione e mirabile tonalità da un tenore vignaiolo: Albano Carrisi.
Albano Carrisi
Poi si è preceduto per simboli, per concretezze, e pochissima retorica. Hanno lasciato che fosse il linguaggio della storia, a raccontare il presente. La storia, e il presente, declinati attraverso i suoi vini. Che hanno stagliato l’Italia dal nord al sud toccando cinque “isole”, due in senso geografico, Sicilia e Sardegna, e tre in senso culturale, Piemonte Marche e Toscana. Con una degustazione in sei atti, anzi batterie di quattro vini, coniugate attraverso un percorso concettuale che ha espresso olisticamente carattere cultura e personalità del grande Giacomino. Partendo dalla sua terra d’adozione: “Territori di Toscana. Quattro aree interpretate con classe”. Descritte con l’inchiostro rosso di quattro eccellenti vini. Il “Guidalberto 2008” della Tenuta San Guido, siamo a Bolgheri e il Sassicaia entrerà in scena più tardi; il “Saffredi 2007” della Fattoria le Pupille” nella Maremma Toscana, il “Sammarco 2006” del Castello dei Rampolla nel Chianti; il “Solengo 2003” dell’azienda Argiano di Montalcino. Ed ecco la Sicilia, nel secondo atto, la terra che più ama, e conserva nel cuore, e scorge nelle vene. L’ha accolta nel suo grembo quando, ricchissima patrimonialmente, la Sicilia si presentava con le vesti inzaccherate di una miseria settecentesca. Solo un paio di vini registravano una dignitosa sufficienza. Il “Vecchio Samperi” di De Bartoli, qualche etichetta della Corvo e niente più. Tutti conoscono oggi il livello qualitativo di quest’isola. Come l’esempio di queste cinque chicche qui a celebralo. Quattro nel blocco del “Laboratorio Sicilia. Nuove grandi espressioni dell’isola”. Fa da battistrada il “Ceuso 2007” dei Melia. Segue il “Tancredi 2007” e il fratello maggiore “Milleunanotte 2006” di Donnafugata e chiude il “Litra 2000”, dell’Abbazia Santa Anastasia, espressione di un’acquisita longevità poco riconosciuta ai siciliani. Il quinto vino: il “Duca Enrico ‘97” esempio di “Declinazioni dell’autoctono. Tradizione carisma Personalità”. Fa da ala al Barolo 2004 di Pio Cesare, al “Terre Brune 2001” e al Carignano del Sulcis superiore della Cantina Santadi. E al Chianti classico riserva “Castell’in villa” dell’omonima cantina. Il nomignolo “mescolavino” Tachis se lo è cucito addosso per mascherare la sua grande passione per i blend.
E questa sua grandezza la si è potuta misurare attraverso otto vini. Analizzati e discussi nelle successive due sessioni: “Iterazioni virtuose tra uve internazionali e quelle del territorio” e ne “Il taglio bordolese. Genesi storia e gloria di quattro nuovi classici”. Ad accompagnarci in questo percorso impregnato di cultura e filosofia due maestri degustatori Paolo Lauciani e Daniela Scrobogna. Ne citiamo quattro il “Tignanello 2006” di Antinori, Sangiovese Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc; il “Pelago 2000” dell’”Umani Ronchi” Cabernet Sauvignon, Merlot e Montepulciano; il “d’Alceo” del “Castello dei Rampolla” 90% Sangiovese e 10% Cabernet e il Pollenza 2004” Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Merlot. Per poi finire con gli ultimi quattro vini come, un crescendo rossiniano. Cuore, naso e tutti gli altri sensi attinti nei nettari dell’eccellenza. Meglio definiti come “ La sintesi del vino perfetto”: “Sassicaia”, “Solaia”, “Barbaresco di Gaja”, “Tauriga”. O ancor meglio definirli : espressione di compiutezza! Che è anche sinonimo di conclusione.
Stefano Gurrera
(Foto di Stefano Segati)