A casa di Roberto Gentile, una ventina di anni or sono, le macchinine e i lego potevano restare tranquillamente negli scatoloni. Meglio il gioco della cucina, praticato con papà Toni a Roma, dopo il trasferimento a 5 anni da Palermo e le sontuose cene per gli amici. Poi c’erano le estati in Sicilia con i nonni, tutto un mondo di sapori da montare e palleggiare nella bocca. Nonostante la scelta del Liceo Linguistico, una volta agguantato il diploma, per lui non c’era dubbio sulla strada da intraprendere. “Anche mentre studiavo, avendo diversi amici all’Alberghiero, avevo chiesto loro di consigliarmi dei libri. E comunque continuavo a cucinare in casa. Ho anche compiuto qualche piccola esperienza estiva, ma quando ho messo per la prima volta piede in un ristorante stellato, la Bandiera della famiglia Spadone, in Abruzzo, ero un neofita totale. Loro mi hanno accolto molto semplicemente e in pochi mesi ho affondato le mani nella professione. Di recente sono pure passato a trovarli per fare qualche prova con lo chef”.
Oggi, a 25 anni, conti fra i magnifici otto italiani della brigata del Louis XV di Montecarlo, il tre stelle di Alain Ducasse. Come ci sei arrivato?
“Sono stati 6 anni di esperienze ininterrotte, mosse dal desiderio di approfondire ciò che mi attraeva o cui mi sentivo legato, in modo da formarmi e forgiare una mia identità. Dopo la Bandiera c’è stato un breve passaggio a Londra, città che ho sempre amato; ho quindi avuto la possibilità di rientrare a Roma presso il ristorante di Nino Graziano, dove ho trascorso quasi un anno, inframezzato da uno stage al Duomo di Ciccio Sultano, perché sentendomi molto legato alla Sicilia, avevo inviato curricula sull’isola e lui mi aveva accolto. È seguito un mese al Pavillon Ledoyen di Yannick Alléno a Parigi, toccata e fuga: la Francia mi aveva sempre attirato e io volevo capire le differenze con l’Italia. Poi di nuovo Roma, ma lontano dall’alta cucina, nella trattoria di uno chef stellato, l’Avvolgibile di Adriano Baldassarre (che sta per il tonnarello sulla forchetta, non per le serrande, come pensavano i miei genitori). Una bella scuola sulle paste romane, per me che sono cresciuto nella capitale. Sentivo che il legame con la Sicilia, come quello con Roma, andava approfondito e l’ho fatto. Dopo il Covid ho trascorso un anno al Celler de Can Roca, stage in cui ho visto tutte le postazioni, e ho compiuto un’esperienza ai Pupi di Bagheria, dove ho fatto sperimentazione anche sui pani. Sono quindi tornato in Francia da Michel Bras quale capopartita per 2 anni, alle verdure, poi a carni e pesci. Ed è stata forse l’esperienza più formativa in assoluto, anche a livello caratteriale e di personalità. Lo chef Régis, che affianca Sébastien Bras, mentre Michel sta nell’orto, ci stimolava a tirar fuori ciò che non si esprimeva appieno per l’età. Ad esempio mi ha corretto subito la tendenza un po’ italiana a sbrigarsela da soli, quando si è in difficoltà in cucina. Invece occorre chiedere aiuto, per risolvere i problemi e portare avanti il servizio. Da capopartita devi saper “coacher”, dirigere il lavoro degli altri, correggere, a volte anche arrabbiarti”.
Poi è arrivato Ducasse…
“Sono qui da un mese e mezzo. La cucina non è più tanto classica, ma mediterranea e centrata sui vegetali, con qualche retaggio della vecchia scuola. Qui si entra solo da commis, poi ti fanno crescere; quindi ho accettato di retrocedere per realizzare il mio sogno. Un collega di mio padre mi aveva regalato da piccolo un libro di Ducasse, scatenando le mie fantasie. In tutto siamo 18 cuochi, di cui 8 italiani, fra i 19 e i 28 anni, e 10 francesi; altre nazionalità non pervenute. Mentre dai Roca eravamo 40, in gran parte stagisti, e dai Bras solo 12. Come orari non ci sono grandi differenze: si fanno 13 ore, due servizi senza staccare, mentre dai Roca erano solo 8 e un servizio, ma da stagista con alloggio. Lavorando ho capito che preferisco la cucina francese. Qui l’ambiente non è male, ogni tanto qualcuno fa il competitivo, quando si scalda l’atmosfera possono verificarsi momenti di tensione, ma finisce tutto col servizio. Poi c’è tanto perfezionismo e attenzione al dettaglio; tutto quello che pensi di far bene, capisci che puoi farlo meglio. Attualmente mi trovo alla partita del pesce, dove siamo in 5: un capopartita e poi tutti commis, secondo l’ordine di arrivo, per cui via via sali. Il tempo minimo di permanenza è di un anno, ma non ho ancora il biglietto di ritorno: il ruolo attuale mi va un po’ stretto, ma staremo a vedere cosa mi verrà eventualmente proposto”.
La cucina del Louis XV ha un’impronta fortemente mediterranea, con influenze italiane.
“Sì, per esempio usiamo più olio che burro, zero panna. I sous chef di giovedì si recano al mercato di Ventimiglia per acquistare buona parte delle verdure, mentre il sabato cercano a Nizza altre cose. Con me c’è un ragazzo di Trapani, ma per la brigata e il resident chef Emmanuel Pilon non abbiamo mai cucinato, visto che i nostri pasti arrivano da fuori. Mi è successo invece di fare delle paste dai Bras, ricordo in particolare quando Michel chiese il bis dell’amatriciana. A Laguiole, in Francia, siccome il paese è piccolo e non offre molto, si organizzavano tante attività, sport, scampagnate, giri in canoa e bicicletta, partite di calcio. Erano momenti di scambio con ragazzi di tutto il mondo, profondamente arricchenti. Ricorderò sempre quel senso di gruppo e l’umiltà della famiglia”.
Ducasse passa spesso?
“È già venuto tre volte in un mese e mezzo e mi sono molto emozionato per questo legame a distanza, nato quando ero piccolo. Per me gli chef erano come attori e calciatori, dei divi. Ho sempre sognato di diventare come lui, fra quarant’anni”.
Come vedi la tua cucina?
“Avendo sperimentato tante influenze diverse, ultimamente sto riflettendo sulla mia identità. Se un giorno dovessi proporre una mia cucina, penso che sarebbe diversa da tutte quelle cui ho collaborato, nel senso che cercherei di riunire il meglio di ciò che ho visto. Ogni tanto butto giù qualche idea su come mi piacerebbe che fosse il ristorante, per esempio vorrei tornare in Sicilia, perché sento che lì è casa mia, è la regione che più mi appartiene come cibo e tradizione dello scarto zero. Immagino una cucina semplice, di prodotto ma vero, di giornata. La materia che preferisco è il pesce, cucinarlo, lavorarlo; poi le verdure, cui mi sono appassionato nel tempo. E mi piace la filosofia: quel che c’è, c’è. Oggi abbiamo questo ed è ciò che proponiamo. Quindi un menu diverso praticamente ogni giorno, perché vincolarsi a piatti fissi significa accettare di lavorare materie di qualità variabile. Da Michel Bras era così: la garniture poteva cambiare ogni giorno, secondo quello che si trovava di meglio”.
Qui di seguito una fotogallery con Roberto Gentile e alcuni piatti realizzati durante la sua carriera