Ieri il quotidiano La Stampa ha pubblicato un articolo a firma di Laura Anello dedicato a Maurizio Spinello (nella foto), il fornaio di borgo Santa Rita, nelle campagne di Caltanissetta, che Cronache di Gusto premierá il prossimo 22 gennaio a Palermo come miglior fornaio Best in Sicily 2013. Ecco il testo.
Borgo Santa Rita, di Laura Anello
“Non ti fare fottere dalla nostalgia”, intimava Alfredo-Noiret al piccolo Totò di “Nuovo cinema Paradiso” raccomandandogli di non voltarsi indietro, di dimenticare la Sicilia, “terra maligna”. Maurizio, invece, con la nostalgia ha impastato il pane, è vissuto ogni giorno, ha scelto contro tutto e tutti di non lasciare il suo borgo di undici abitanti perduto tra le campagne dell’Isola. “Pazzo, mi dicevano, pazzo, quando ho deciso di aprire il forno qui, dove sono rimaste solo la mia famiglia e quell’altra nella casa lì di fronte. Vattene, mi urlavano, vattene come hanno fatto tutti gli altri a cercare lavoro altrove”.
E invece Maurizio ha vinto la sua scommessa con la vita, una sfida personale che sa di storia universale. E che racconta come dalla periferia, dalla tradizione, dal ritorno alla natura e ai suoi ritmi possa partire una storia imprenditoriale che sta per essere coronata dal premio “Best in Sicily”, assegnato dal portale “Cronache di gusto” alle eccellenze siciliane. Tra legioni di scintillanti rivendite di città e di ottime botteghe di paese, i gourmet hanno deciso che il migliore fornaio dell’Isola – la terra che del pane ha fatto una religione – è proprio Maurizio Spinello, 35 anni, il fornaio del borgo Santa Rita, a undici chilometri da Caltanissetta. Il paese quasi fantasma costruito nel 1920 dal barone Ignazio La Lomia per i contadini del suo feudo che nel tempo hanno acquisito la proprietà delle case, cubetti bassi di pietra su cui svetta la chiesa intitolata alla patrona, dedicata dal barone alla moglie nel 1935.
“Questa è casa mia”, dice Maurizio presentando madre, padre, i figli Salvatore di 11 anni e Marco di 8. Ragazzini sorridenti, immersi nella natura, innamorati del borgo. “Andarcene? Mai”, dicono ridendo di ritorno dalla scuola che sta nel paese di Delia, a un quarto d’ora dal villaggio. “Un tempo la scuola era qui – racconta il fornaio – così come c’erano la caserma dei carabinieri, la rivendita di tabacchi, lo spaccio alimentare. Era pieno di famiglie di contadini e pastori. Ma negli anni Sessanta cominciò l’esodo. Mio padre restò, con il suo allevamento di una quarantina di mucche che ci dava da vivere sempre più a fatica. Finché mia madre, per arrotondare un po’, si mise a fare il pane e a venderlo alla gente di passaggio insieme con un po’ di latte e qualche uovo. Quel pane è diventato la mia vita”.
La svolta nel 1999, quando Maurizio ottiene la licenza. E poco dopo, quando riesce a convincere il direttore della filiale della Banca Toniolo a concedergli un prestito di cento milioni di lire: “Sarà che anche lui è nato in questo borgo, ma quando gli ho parlato del progetto si è quasi commosso”.
Si apre una porta, esce agile un’anziana. “Buongiorno, signora Gina”. Ha novant’anni, ne dimostra venti in meno. La più anziana del borgo, la capostipite dell’altra famiglia che non se n’è voluta andare. Suo figlio
Vincenzo – moglie e tre figli – fa il contadino. “Ma io sono l’unico che ha la residenza qui, posso fare il sindaco e adesso pure il parroco, visto che il nostro è caduto e per ora non viene”, scherza Maurizio mostrando la sua prima bottega e la nuova, più grande, aperta tre anni fa in quella che era la stalla del padre. Dietro la rivendita, un laboratorio di 140 metri quadrati dove lavora dalle 5 del pomeriggio alle 4 del mattino, spesso da solo, talvolta aiutato a turno dai genitori.
Al centro il forno, alimentato dal legno di mandorlo e di ulivo. “Grandi sacrifici, grande fatica. Ma io sono felice – racconta – e penso a quelli che se ne sono andati in città e adesso sono disoccupati. Me li ricordo i loro sorrisi di sfottò”. Dicevano: ma a chi lo venderà questo pane? “All’inizio rifornivo una catena di supermercati e tutte le botteghe dei paesi del circondario, ero diventato quasi un monopolista, facevo 250 chili al giorno e giravo come un pazzo con il mio furgone. E nonostante questo, ce la facevo appena, perché vendevo a prezzi bassi. Dopo sette anni ho incontrato gente che lavorava con il biologico, e mi si è aperto un mondo, il mio mondo”.
Il suo mondo sono i grani antichi siciliani che mostra come le monete di un tesoro. “Si chiamano Russello, Tumminia, Perciasacchi, Senatore Cappelli. Rendono meno delle varietà convenzionali, ma la qualità è incomparabile”. E poi c’è il mulino, a pietra. “Ho girato mezza Sicilia per trovarne uno, tutti mi facevano vedere quelli moderni, a cilindro, che surriscaldano il grano durante la molitura. Poi ho incontrato un altro pazzo come me, Filippo Drago, e il suo mulino del ponte, alle porte del paese di Castelvetrano. Ho chiuso il cerchio”.
Mostra le pagnotte, pronte a essere infornate: “Non c’è ombra di lievito di birra, perciò il pane resta fresco per quindici giorni. Ci sono solo farina, acqua, sale e crescente, cioè la pasta madre ricavata dal pane già lievitato. Ogni volta che faccio il pane, ne prendo un pezzo e lo conservo per l’impasto successivo, una catena che non si spezza mai”.
Con la qualità, sono arrivate la certificazione dell’Aiab (l’associazione italiana di agricoltura biologica) e le richieste da spacci e mercati qualificati di tutta Italia. “Ho ridotto la produzione, faccio 150 chili al giorno e sono orgoglioso di ogni boccone. Lo assaggi”. Sa di fieno, di terra, di legno. Sa della gioia di avercela fatta.