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Il personaggio

L’ultimo interprete della cucina giudaico-romana: scopriamo i piatti “kosher-style”

24 Giugno 2021
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di Micol Ferrara

Kosher… Quante volte abbiamo sentito questo termine.

Senza magari mai approfondire la questione. Cos’è il Kosher? E, in particolare, la cucina Kosher? E’ buona? Per queste e altre risposte ci siamo rivolti a Umberto Pavoncello, forse l’ultimo ebreo romano del ghetto e patron del ristorante Nonna Betta, aperto nel 2008 a Roma. Il locale si trova al civico 16 di via Portico d’Ottavia, cuore del ghetto romano, alle spalle della sinagoga. Pavoncelo ha voluto mantenere vivi i piatti della tradizione culinaria giudaico-romana a cui ha aggiunto, complice il socio egiziano Gamil, crstiano e da 30 anni a Roma, alcune pietanze della cucina medio-orientale. Pavoncello è di sicuro uno dei più profondi conoscitori della cultura di quello che, nel corso dei secoli, a torto o a ragione, è stato più volte definito il popolo eletto o, in versione spregiativa, reietto. Umberto, 63 anni, è stato educato dalla madre alle tradizioni e alla religione ebraiche. Per 25 anni ha lavorato come agente pubblicitario. Poi, però, la crisi e, in particolare, il richiamo delle sue origini, lo ha spinto a rilevare il ristorante più antico e unico almeno negli anni ’70 e ’80, giudaico del ghetto romano. Lo ha fatto con la complicità di Gamil, socio egiziano cristiano di rito copto che ha avviato con lui una cucina tradizionale, ma non rigorosamente kosher, trasmettendo quelli che possono essere considerati i piatti della cucina ebraico-romana che nonna Bettina aveva, per decenni, preparato a Umberto e alla sua famiglia.

Ci spiegherebbe in termini semplici, ma esaustivi il kosher?
“Dal modo con cui si definisce il termine Cashèr – kosher per gli anglosassoni – che traduciamo con “adatto”, “consentito”, “permesso” si può capire la logica delle regole alimentari ebraiche. L’esigenza di allontanarsi e distaccarsi dagli usi idolatrici ha determinato l’oggetto e le modalità delle regole sancite nel Levitico. Principalmente il divieto di ingerire il sangue degli animali (il contrario di cashèr è “tarèf” che significa “sbranato”), ritenuto il veicolo e il contenitore della vitalità di un essere. Da qui impariamo che non si può vivere sfruttando la vita di un altro essere vivente. Per questo motivo il doppio requisito per i quadrupedi – essere ruminanti quindi erbivori e avere lo zoccolo spaccato quindi senza unghie – garantisce che si tratta di animali erbivori e non di predatori che si cibano della carne di altri animali. I volatili sono tutti permessi tranne i notturni e i rapaci, ma anche questi, come per i quadrupedi, devono essere uccisi ritualmente con la “schechità”, lo sgozzamento, e il successivo dissanguamento per eliminare la maggiore quantità di sangue possibile. In origine questo era un metodo rispettoso della dignità e della vita dell’animale; purtroppo oggi la macellazione rituale ebraica deve obbedire ai ritmi dei mattatoi e non riesce a essere migliore di quella normale. L’altro divieto fondamentale è la mescolanza di carne con latticini e latte che deriva dal versetto della Torà “non cucinerai il capretto nel latte di sua madre”. Il termine “ghedì”, capretto, indica anche genericamente un cucciolo di animale perciò il divieto è stato esteso a tutti i tipi di carne e a ogni tipo di latticino. Da questa norma sono stati ricavati numerosi insegnamenti morali circa la sacralità della vita, compresa quella degli animali, ma la suggestione più forte, forse, è quella che deriva dalla kabbalà che associa la carne all’esercizio della Giustizia e al latte il sentimento della Misericordia da cui si impara che non bisogna mai mescolare la Giustizia e la Misericordia: nel momento dell Giustizia non dobbiamo lasciarci influenzare dai sentimenti, così come nel compiere un’opera di Misericordia non dobbiamo approfittarne per rimproverare o per ammonire. I pesci devono avere le squame e le pinne quindi sono esclusi i molluschi e i crostacei e quei pesci che non hanno entrambi i requisiti. La frutta e i vegetali in genere sono sempre permessi”.

(Gli interni del locale)

“Nonna Betta” è uno dei ristoranti Kosher Style più noti nel panorama romano e non solo. Cosa si aspettano i vostri avventori? Quali sono le richieste e le curiosità che riscontri più frequentemente?
“Sin dall’inizio avevo in mente l’idea di ristorante come veicolo culturale. Al di là della retorica “cibo uguale cultura”, ho voluto allargare l’esperienza gastronomica giudaico-romanesca alla storia degli ebrei romani e alle suggestioni del pensiero religioso ebraico. Oltre a un cibo di qualità gli ospiti di Nonna Betta si aspettano ormai anche una competenza che possa rispondere, oltre alle curiosità sulle antiche ricette, anche a domande sulla Torà o sulla Kabalà. Io che sono un appassionato di esegesi biblica, mi ritrovo spesso e volentieri a condividere quello che ho imparato con gli ospiti di Nonna Betta. Voglio aggiungere che ho sempre evitato di parlare di Shoà, innanzitutto per la sacralità e la delicatezza del tema. soprattutto per il desiderio di associare l’ebraismo alle infinite fascinazioni che esercita e all’amore per la vita che suscita”.

Può farci un esempio di un menù tipico di tradizione giudaico romanesca?
“A partire dal carciofo alla giudia suggerisco sempre la concia – zucchine marinate – la frittata cipolla e pomodoro, la gricia alla giudia con carciofi – no maiale ma pezzetti di carne secca di manzo – gli aliciotti con l’indivia – con noi dai tempi degli antichi Romani – le polpette col sedano, gli spinaci con i pinoli – alla catalana – e per finire i dolci tipici fatti in casa tra cui, oltre alle più famose torte con ricotta e visciole o ricotta e cioccolata, consiglio la Cassòla che è buona e semplice in modo eccezionale”.

Se dovesse scegliere solo una ricetta, da regalare ai lettori di Cronache di Gusto, come la più rappresentativa del suo menu quale sarebbe?
“Per originalità, autenticità e storicità, tre valori che riconosco anche a Nonna Betta (il ristorante), penso agli aliciotti con l’indivia – strati successivi di acciughe fresche e ciuffetti di indivia con olio sale e pepe da mettere in forno – che sono arrivati fino a noi, conservati dagli ebrei romani dai tempi in cui si trasportava il pesce dal mare risalendo il Tevere. Per conservarlo durante il trasporto, quello particolarmente deperibile si metteva tra due strati di verdure fresche. Arrivato al mercato di S. Angelo in Pescheria questi fagotti si scoperchiavano e si metteva in vendita il pesce. L’invenduto si lasciava tra le verdure e si infornava così com’era. A parte questo aspetto, gli aliciotti con l’indivia mi piacciono da morire. E sono pure dietetici”.

Nonna Betta – Cucina Kosher Style
Via del Portico d’Ottavia, 16 – Roma
T. 06 68806263
www.nonnabetta.t