di Fabrizio Carrera
Accidenti, che tristezza. Se n’è andato uno dei più intelligenti imprenditori in circolazione che con la sua eleganza, le sue bottiglie di vino leggendarie ha illuminato la Sicilia di speranza.
Lucio Tasca conte d’Almerita è stato una gemma preziosa, un amico insostituibile, un elegante interprete di un certo modo di essere siciliano. Campione olimpico di equitazione, sequestrato dalla mafia quand’era adolescente, ossessionato dalla puntualità (che per lui equivaleva a civiltà), rampollo di una schiatta di Gattopardi e orgogliosamente gattopardo egli stesso. Ma a differenza di don Fabrizio Corbera, principe di Salina, che non credeva in una Sicilia coniugata al futuro, il Conte Lucio Tasca d’Almerita aveva invece una grande fede in questa terra, nelle sue potenzialità, nella sua capacità di riscatto. Con Diego Planeta e Giacomo Rallo ha dimostrato che anche a queste latitudini è possibile fare sistema, un esempio che fa scuola ancora oggi. Sono loro ad aver suggellato il rinascimento del vino siciliano a dispetto di ogni ostacolo e se il vino siciliano oggi è famoso nel mondo e traina un intero comparto economico lo dobbiamo a loro. E con la scomparsa del Conte Lucio forse si chiude un’epoca.
Non vorrei scrivere un coccodrillo di quelli per cui chi lo scrive diventa il protagonista della storia, ma non posso non ricordare con rammarico di averlo incontrato appena pochi mesi fa, a Palermo. Lo osservo mentre conversiamo e non dimentico che Mario Soldati lo immortalò in quattro pennellate perfette nel suo “Vino al Vino“ che ogni produttore dovrebbe leggere. “Bruno, magro, alto, occhi fiammeggianti, denti bianchissimi, somigliante a Warren Beatty”. Ma sempre affascinante, anzi racé. Infinitamente, racé. In quell’ultima occasione abbiamo riso insieme su certi “annacamenti” siciliani, certa politica fuori dal mondo, la Sicilia che lui amava e che lo faceva anche soffrire. Barbagli di intelligenza apparsi qua e là nel discorso, un’ironia feroce che spesso diventava rarefatta e coinvolgeva se stesso. Un uomo speciale, secondo me. Un altro esempio? Aver già definito gli assetti futuri dell’azienda con una lungimiranza che spesso latita in queste terre popolate di Mastro Don Gesualdo attaccati alla roba.
E qui adesso entro nella stanza dei miei ricordi personali. Come in quella intervista che mi raccontò per filo e per segno il suo rapimento quando era poco più che un ragazzino, non senza venature paradossali visto che ciò che ha prevalso in lui era una voglia di vivere contagiosa e sognatrice. Come il sogno che mi ha regalato il Primo maggio del 2002: al teatro Massimo di Palermo per assistere al concerto di Claudio Abbado con i Berliner. Ero con Giacomo Tachis che avevo invitato per l’occasione. Lo incontrammo e ci invitò a Villa Tasca. A casa sua, quella sera a cena, c’erano Abbado e i Berliner.
Ci mancherà. E mancherà all’Italia migliore.