Salvatore Geraci (nella foto) è uno di quei produttori che davvero vanta una conoscenza quasi enciclopedica del vino.
E' un curioso, uno che non smette mai di provare e di ricercare “grandi bevute”, uno di quelli che si intende veramente di vino e che si contano sulle dita di una mano, citando l’espressione usata da Fabrizio Carrera nel suo ultimo articolo pubblicato su cronachedigusto.it (per leggerlo cliccare qui) nel quale interroga produttori ed enologi su quanto vino conoscano. Ebbene, colui che ha contribuito a ridare slancio alla viticoltura messinese con il Doc Faro Palari, di etichette nella sua memoria del gusto ne conserva tante.
Lui fa parte dell’altra metà di produttori, di quelli approdati all’imprenditoria del vino in tempi maturi, con piena coscienza e padronanza della materia. Ma al vino arriva in età insospettabile, a 18 anni. Nel periodo di vita in cui si passa più tempo con il gruppo di amici tra serate serate e ragazze, Geraci si dedicava invece alla lettura dei libri e delle guide della De Agostini scritti da Alberto Zaccone, affronta viaggi on the road per andare a visitare a bordo della sua Diana Sei angoli e regioni del vino, come la Borgogna, la sua regione/spazio mentale modello. Era uno dei pochissimi ad avere le copie di Wine Spectator quando ancora in Italia non se ne trovava traccia.
Oggi è membro di cerchie ristrettissime, come l’Accademie du vin, che annoverano tra i membri nomi altisonanti del mondo-vino, tra tutti Angelo Gaja. E ha avuto l’onore di fare parte del cenacolo di Veronelli, e ricorda bevute indimenticabili proprio con Gino, nel cuore gli è rimasta quella che li vide pasteggiare un Madeira di fine ‘700. Poco più che un ragazzo già beveva Chateau d’Yquem. “Andavo alla Locanda del Sole, a Maleo, gestito dal grande Franco Colombani, il primo ad avere avuto in Italia i sigari cubani quando era vietato importarli, li abbinava allo Chateau d’Yquem ghiacciato che usava accompagnare con un vecchio auricchio di cinque anni, con la muffa”, racconta Geraci.
Gli chiediamo le sue preferenze, che cadono sulla Borgogna, su i vini di Henri Jayer, l’uomo del Pinot Noir. “Della Borgogna amo il suo essere terragna, uso appositamente questo termine, una realtà che per me supera di gran lunga la nobiltà bordolese, a cui riconosco vini di altissimo livello comunque”. Ama tutti gli Champagne. Si dichiara un rossista e tra i suoi must ci sono i Barolo di vecchio stampo, come il Monfortino di Conterno. E per quanto riguarda i bianchi beve quelli pensati con la testa di chi fa i rossi. “Mi piacciono quelli passati in legno, capziosi, complessi, poco facili, come un’Aoc Montrachet o certi Chablis”, spiega il produttore.
La sua ricerca di etichette e di assaggi sempre nuovi non si arresta mai, o meglio, non si appaga mai. “Non mi voglio chiudere da produttore nel mio particulaire e bevo di tutto e di più. Cerco le novità. Questo mondo che sembra un mondo di arrivati in realtà non lo è. Nei miei viaggi voglio sempre provare di tutto, non mi sottraggo a nulla. Sono stato a Vienna dieci giorni fa al ristorante Il Cammello Nero, lì ho scoperto dei Riesling strepitosi e anche in Romania, che ha la stessa altitudine di Bordeaux, ho trovato cose curiosissime, lontane da noi”.
Gli abbiamo estorto le etichette del cuore. Ed ecco la sua top twelve, dove figurano le sue pietre miliari, gli esemplari di bottiglie, per lui, da grandi emozioni.
Rossi:
1) Montevetrano di Silvia Imparato '98
2) Barolo Monfortino di Giacomo Conterno '92
3) Chateau Léoville-Poyferrè '92
4) Gevrey-Chambertin Clos-Saint Jacques '94 di Armand Rosseau
5) Echezeaux '82 di Jayer
Bianchi:
6) Pouilly-Fuissè di Olivier Merlin '98
7) Gewürztraminer Clos Windsbuhl 2002 Zind-Humbrecht
Champagne:
8) Pol Roger Cuvèe Winston Churchill '88
9) Blanc de Blancs millesimè di Michel Genet '96
Dolci:
10) Passito di Pantelleria ” Creato” di S.Murana '82
11) Chateau d'Yquem '76
12) Porto Fonseca 1927
M.L.