E’ anche un funzionario dell’istituto vite e vino con una lunga esperienza nelle giurie internazionali. In questo articolo il racconto di un siciliano che ha assaggiato migliaia e migliaia di vini
“Ecco a voi Jean Jardin”. Lo speaker lo annunciò così al concorso mondiale di enologia di Bruxelles. In sala cessò il brusìo distratto e partì l’applauso. “Ma fino a quando mi chiamavano col mio vero nome nessuno mi prestava attenzione”, racconta oggi con divertimento. Il ragazzo sveglio di Canicattì in provincia di Agrigento con una geniale guasconata aveva tradotto in francese le sue generalità nella scaletta degli interventi. E Gianni Giardina, neanche con tante difficoltà, diventò Sgian Giarden, pronunciato con convinzione dall’ignaro presentatore. “L’ho fatto – rievoca – per essere ascoltato con un po’ di interesse visto che nel mondo del vino il maggiore fascino proviene dalla Francia. E allora se sei – o imbrogli di essere – di quelle parti in qualche modo si aprono le porte”. Al di là di questo episodio che ci consegna un personaggio in cui si condensa furbizia e prontezza, Giardina per fortuna nel suo lavoro non ha avuto bisogno di mentire. Parlano per lui le intere pile di locandine, ritagli di giornale, riviste specializzate, ricerche, sperimentazioni e risultati che portano il suo nome sicilianissimo.
Per lui mercoledì 24 novembre 2021 è stata una giornata importante, perché è stato nominato primo ambasciatore del Cervim, una sigla che nasconde ai più (ma non agli addetti) una bella storia a difesa della cosiddetta “viticoltura eroica” fatta di duro lavoro in pendii scoscesi, cura delle piante in posti impervii, coltivazioni in isole lontane, piccole e remote guglie di territorio in cui ogni fazzoletto disponibile accoglie un vigneto. Parliamo del Centro di ricerca, studi, salvaguardia, coordinamento e valorizzazione per la viticoltura montana di cui Giardina è stato una delle anime appassionate. E ci vuole amore per fare questo, serve un desiderio che sconfina nel tormento per dedicare un pezzo della tua vita a scommesse che lambiscono l’azzardo. Quasi tutte vinte. L’uomo, classe 1964, dal punto di vista enologico è come se avesse vissuto più vite. Funzionario dell’Istituto vite e vino, ricercato nelle giurie internazionali, richiesto per un consiglio che lui spassionatamente elargisce, assaggiatore anche di grappe e di Armagnac. Non si fa mancare nulla, insomma, fra un aereo che lo porta a un tour de force di assaggi e un documento da compilare essendo lui presidente della commissione Doc Sicilia. Ha un palato e un naso allenati da migliaia di degustazioni. “In un giorno ho dovuto assaggiare 200 campioni di vino per la loro esibizione al Vinitaly”, racconta. Ma il sorso che gli è rimasto nel cuore e nella memoria è quello di uno Chateau Margaux, tanti anni fa. “Non ricordo l’annata – rievoca – ma per me ancora oggi quel bicchiere fu una lezione di perfezione”. Giardina, siciliano fino al midollo, ha una missione: “Migliorare la qualità del prodotto dell’Isola che oggi ha raggiunto vette di assoluta eccellenza”.
E’ per sfuggire a un destino familiare omologato da ingegneri e architetti che decide di annegarsi nel vino. Non per dimenticare, ma per imparare; ché lui nonostante i milioni di litri di alcol maneggiati, solo una volta ha preso una sbronza. Chissà perché e chissà per chi.
La sua parabola professionale parte da Canicattì, paese alla fine del mondo – basti pensare che a Milano dire me ne vado a Canicattì significa vado in un posto che non esiste –, ma centrale nella produzione di uva da tavola. Da ragazzo è sempre immerso tra filari, pampine e grappoli di uva Italia, una curiosità che si colora di passione e poi si veste di mestiere. Per lui vale sempre una regola ferrea: “Prima di essere un assaggiatore di vino sei un enologo. Una frase che mi ha lasciato Riccardo Cotarella, uno dei maestri che ho avuto la fortuna di incrociare”. Quando comincia a ingranare fa incontri determinanti. Mostri dell’enologia internazionale come Giacomo Tachis, Pietro Pittaro, Luigi Veronelli e Giuseppe Martelli dal quale assorbe quel che può. Umile, deciso, determinato. Come l’inglese che mastica, anzi azzanna, perché sa che per avere orizzonti larghi servono meno barriere linguistiche possibili. Il primo successo involontario è col Barone La Lumia. Una sperimentazione sul Nero d’Avola per fare un vino secco sulle tracce dell’Amarone. Una barrique, però, per errore rimane dolce. Nasce un vino che sembra un recioto ed è il primo Nero D’Avola dolce in Sicilia. Da lì, una catena di premi, riconoscimenti, successi. Lui, quando può, corre fra i suoi preziosi filari fatti di vitigni rari da cui nasce una piccolissima produzione di vini dolci tipo sauternes. “Quest’anno abbiamo fatto sessanta bottiglie, una quantità appena sufficiente. Per familiari e amici stretti”.
C.d.G.