Il produttore piemontese, protagonista all'evento Beverfood di Enna, racconta le langhe e i suoi vini
Elio Grasso (nella foto) ama sottrarsi alle interviste.
Si direbbe un personaggio schivo e riservato , se si pensa all’eccezione positiva; diffidente se lo hai difronte e ti lasci ingannare dalla sua gestualità. Lo cerchi al cellulare e tieni ben presente che è un autentico piemontese. Quindi sei preparato al suo carattere sabaudo, sinonimo di senso del dovere, discrezione, di una durezza spesso stemperata dalla diplomazia e ancor più spesso temperata da un’innata severità e da una rigidità nell’educazione che tutti i piemontesi ricevono. In particolare se sono langaroli. E anche contadini. Lui è un langarolo-contadino di Monforte d’Alba, parte est della provincia di Cuneo, quindi nel cuore delle Langhe. Contadino autentico anche se ha rischiato una laurea in economia e commercio, una vita da bancario e una permanenza più definitiva che saltuaria nella città del lavoro freddo e insensibile che è Torino.
Ma la genetica del suo Io non ha subito mutamenti così la campagna che sempre ha avuto nel sangue e che prima o poi manifesta l’effetto del richiamo dell’anello di Tolkien. Solo un caso se si deve legare questo ritorno, ai perenni e funesti eventi che sfociano nei cambi generazionali. Ed è così che è riapparso nelle sue campagne della Langa albese lasciando il lavoro, la banca, la sicurezza per ritornare al paese natio, e puntare il suo tesoretto accumulato, sul tappeto verde di quei pendii coperti di vigneti e velati di speranza, da vivere più che abitare, tanto sono suggestivi che ben poco bisogno avrebbero di parole quando il loro intrigo è fatto di cose, di pietre, di colori, per dirla con Pavese, che per lui sono state certezze.
Un prologo necessario se vogliamo capire prima il personaggio Elio Grasso poi i suoi vini, vera e autentica espressione più che di un territorio di una interpretazione filosofica dei loro “sorì”. Come una sorta di luogo incantato dove ritrovano le originarie radici. Tutte rivelate dai loro tre cru più importanti, tre Baroli” che strizzano l’occhio alla storia e alla tradizione, più che alle guide. Sono il Gavarini Vigna Chiniera, il Ginestra Vigna Casa Maté, e il Rüncot, “Il nostro testamento – esordisce Elio Grasso – tre vini che parlano tre dialetti diversi, tre linguaggi, la lingua madre dei terreni. Quello della Chiniera è molto sabbioso, diverso dalla vigna di Casa Maté più ricco, più calcareo, più argilloso. Osservano entrambi i protocolli rigorosi , tipici e tradizionali delle Langhe con affinamento in botti grandi di Slavonia non tostate. Mentre il Rüncot è un’espressione di un’apertura mentale portata da mio figlio Gianluca, l’uso di una barrique da 220 litri, che qui in Piemonte non raccoglie ancora una lunga tradizione. Ma il vino qui affina quarantaquattro mesi e il legno prima fa il suo lavoro lasciando qualcosa di suo ma poi ci pensa il vino a modulare bene i profumi che in gra parte si esprimono solo con frutto e col terreno e pochissimo col legno. Fu Angelo Gaja ad introdurla per primo una trentina di anni fa e io la volli provare, ma solo col Barbera Vigna Martina e lì fini”.
Cosa rappresenta Angelo Gaja per voi piemontesi?
“Un pioniere. Capì per primo che la viticultura doveva innovarsi doveva correre in linea con i francesi che tanto lavoravano in cantina e ancor più nel campo della comunicazione. Era sempre in giro per il mondo a far conoscere i suoi vini che erano principalmente vini del Piemonte, i “nostri” vini. E non potevano non essere grati ad una ambasciatore così rappresentativo come lui”.
Dalla Francia non portò solo nozioni enologiche e di marketing ma assorbì anche la vera essenza dell’anima contadina dei vigneron.
“Ma importò anche la cultura dei vitigni alloctoni. Una vera ventata di novità che in Piemonte lasciò il suo segno. Arrivarono gli Chardonnay, i Merlot, i Cabernet e fu il grande successo, anzi, trionfo dei vini da tavola. Nel senso lato della parola. E dello sbrindellato gusto internazionale. Fu una moda presto soppressa ma non fu un’esperienza negativa. Imparammo a capire cosa non si doveva fare e quello che si doveva ritornare a fare: valorizzare gli esclusivi e “nostri” vigneti autoctoni e recuperare l’immagine del vino piemontese, del “Vino dei re”. E anche la vera anima contadina e langherola, il cui modello ideale, è vero, assomigliava sempre più ai cugini francesi della Borgogna. Cosa che in Toscana ad esempio non si è verificato. Loro assomigliano ai bordolesi, sarà una questione di latitudine, ma lì molti fanno il vino per hobby, altri per vaneggiare la nobiltà altri ancora per il gusto di investire. Noi il vino invece lo facciamo per comprarci le sigarette”.
Il vino allora non ha bandiere, è un mondo fatto di tanti piccoli paesi e tutti diversi, nelle forme nei personaggi umani, nel carattere e nell’anima. Lo vede così?
“Sì è vero, e questi paesi si dividono e si differenziano in tante contrade anch’esse tanto diverse tra di loro. Diversità tutte fermentate nei loro vini. Ed è questa la sua ricchezza. Se così non fosse il vino si distinguerebbe solo per i diversi prezzi delle loro etichette”.
I suoi vini saranno presentati ad Enna il 22 ottobre alla degustazione organizzata da Beverfood Sicilia. Come si sta preparando per questo evento? Sappiamo che è la sua prima volta in Sicilia.
“Provando la stessa emozione di quando ho preparato la valigia per andare per la prima volta a New York. La Sicilia per me è un continente nuovo e lontano. E so che è ancora più affascinante dell’ America perché di continenti ne contiene molti e tutti diversi. Come sono diversi tutti i vini del mondo”.
Ph: Tom Hyland
Stefano Gurrera