Intervista al patron di una delle cantine più importanti del Sud Italia. Gli investimenti (l'ultimo a Bolgheri), l'approccio con gli uomini dell'azienda, il legame col terroir. E il Mezzogiorno che potrebbe fare di più ma…
(Antonio Capaldo)
di Fabiola Pulieri
“Il vino ci migliora. Purchè non ci sia ansia da profitto”. Parte da questa frase che è un po' il leit motiv della sua vita da imprenditore vitivinicolo una conversazione con Antonio Capaldo.
Dire Capaldo è dire Feudi di San Gregorio, ovvero una delle cantine più importanti del Sud Italia. Base in Irpinia, una costellazione di investimenti tra Puglia, Basilicata, Etna e, adesso, anche Bolgheri, oggi Feudi San Gregorio e il suo management è un riferimento per chi si approccia col vino. Non è questione di confronti, ma di strade tracciate per gli altri con la consapevolezza di voler fare qualcosa che ripaghi chi ci lavora e il territorio. Incontriamo Capaldo a Roma. E continuiamo da quell'”ansia da profitto”. “Sì, ne sono convinto – riprende il presidente di Feudi di San Gregorio -. Produrre vino migliora l'approccio alla vita. Il mondo del vino non è diverso o peggiore di altri, l'importante è non fare solo profitto, ma fare in modo che figli e nipoti si trovino l'azienda in condizioni migliori rispetto a quando l'abbiamo cominciata a gestire noi”.
L'azienda è stata fondata nel 1998 da Pellegrino Capaldo, padre di Antonio, insieme alla famiglia Ercolino, dopo il coinvolgimento dei numerosi fratelli e la successiva riduzione del numero dei soci nel 2001, vede nel 2009 il debutto di un giovane poco più che trentenne, fino a quel momento dedicatosi alla finanza e sempre in giro per il mondo, che in brevissimo tempo ha preso il pieno possesso dell'azienda Feudi San Gregorio: Antonio Capaldo. Oggi a quasi quarant'anni è il presidente, ma di fatto il proprietario e manda avanti tutto, dai duecento dipendenti, alle scelte di strategia finanziaria, ai nuovi progetti, agli investimenti e tanto altro. “Prima di questa avventura ero in McKinsey e non avevo mai pensato di lavorare con il vino, in Campania ci tornavo volentieri in vacanza”. Tutto ciò fino al 2009 appunto, anno in cui, con l'ingresso attivo in Feudi di San Gregorio, tutto è cambiato per Antonio che ha mostrato immediatamente determinazione e coinvolgimento, sia dal punto di vista emotivo che professionale. Ha riconosciuto che la cosa che serviva principalmente all'azienda “Feudi” era l'identificazione.
“Fin dall'inizio – spiega – ho voluto attorno a me persone molto motivate, di spicco nel settore, tanto da diventarne in alcuni casi amico e anche socio”. Quattro milioni di bottiglie, oltre 330 ettari vitati, un ristorante all'interno dell'azienda, il Marennà, guidato da Paolo Barrale, una stella Michelin, e molte iniziative e progetti non solo all'avanguardia e sperimentali, come il Dubl, ma nell'ottica di un allargamento degli orizzonti con vigneti e tenute in Puglia, a Manduria e Cefalicchio, con una produzione di circa 50 mila bottiglie; una compartecipazione con Pierpaolo Sirch (che di Feudi è l'ad) a Cividale del Friuli che produce duecentomila bottiglie e un progetto vitivinicolo a Barile in Basilicata, nella zona del Vulture. A tutto ciò da poco si è unito il progetto Etna, in Sicilia, con Federico Graziani, altra figura chiave di Feudi “con il quale – rivela Antonio – abbiamo creato una nuova azienda da cui abbiamo iniziato a produrre un rosso e per il prossimo anno è previsto anche un bianco. Cresceremo sull'Etna…”. E poi un nuovo acquisto, in Toscana, a Bolgheri, luogo ambitissimo in cui Feudi San Gregorio ha investito una decina di milioni per una villa e un cantina, appartenuti alla famiglia Guicciardini Strozzi, con quattordici ettari di terreno intorno dove, parole dello stesso Capaldo, “crediamo di creare discontinuità con il passato, con varietà internazionali, un nuovo marchio e una produzione iniziale di centomila bottiglie”. Bolgheri è una zona di prestigio, è un piccolo club o come lo definisce sempre Antonio è “il salotto del vino italiano che dal punto di vista gestionale ci potrà consentire di crescere tantissimo all'estero e dal punto di vista produttivo di poter lavorare con delle varietà molto prestigiose. La consideriamo una bella sfida, è stata indubbiamente un'occasione da non lasciarci sfuggire”.
Feudi di San Gregorio è un'azienda con un fatturato da ventisei milioni di euro a cui si aggiungono due milioni di euro di proventi ottenuti dalla vendita di vino al ristorante Marennà (trentamila presenze all'anno) e all'interno dei due wine shop presenti dell'aeroporto di Capodichino a Napoli. La visione di Antonio Capaldo della sua azienda è molto concreta: “Per me l'equilibrio è che ogni anno la mia azienda renda di più in termini qualitativi, che sia migliore dell'anno precedente, che abbia un peso specifico maggiore e si arricchisca ogni giorno di più, ma questo arricchimento non lo intendo solo in termini economici, è tale se si riesce a stare sul mercato e nel contempo generare qualcosa, investire sul territorio, aggiungere personale valido, allora l'azienda sta davvero migliorando. La qualità e la squadra sono obiettivi da non perdere di vista perseguendo solo il lato commerciale, perché altrimenti dopo qualche anno ci si ritrova ad aver perso qualcosa di molto più importante”.
Altro grande progetto, realizzato e portato avanti con la consulenza di Anselme Selosse, produttore di Champagne super ricercato, nasce nel 2002 quando il papà di Antonio legge di questo produttore francese su un giornale italiano. “Lo abbiamo chiamato e gli abbiamo fatto vedere l'azienda proponendogli di fare il metodo classico con le nostre varietà autoctone – racconta Antonio – non lo avremmo mai immaginato eppure Anselme si è innamorato del nostro territorio e nonostante non faccia consulenza, per noi ha fatto un'eccezione, è rimasto affascinato dall'idea e ha detto di aver ritrovato in Irpinia tre P per lui fondamentali: il paese, il paesaggio e le persone, ovvero pays, paysage e personnes che erano gli stessi della Francia di sessanta anni fa”. E' così che è iniziato il progetto “Dubl” e continua Antonio “la prima annata dello spumante, la 2003, è uscita nel 2007, ma non ci è piaciuta, c'erano alcuni difetti, errori che abbiamo dovuto correggere, prove che hanno richiesto tempo e annate intere che sono andate perse. Per due anni è stata fermata la produzione, sono stati condotti studi approfonditi e inviati i nostri tecnici a studiare in Francia e poi, dopo aver capito bene le motivazioni degli insuccessi, siamo ripartiti. Finalmente nel 2009 è uscita l'annata 2007 che era ricca di aspettative ed è stato un successo straordinario”. Antonio Capaldo ripensando a quegli anni afferma: “La cosa che mi fa spesso sorridere è che ad alcuni clienti è piaciuta di più la prima produzione, non perfetta, che non quelle successive migliorate, incredibile”.
La Francia è da sempre l'obiettivo da raggiungere tanto nello spumante targato Dubl, quanto nei vini e proprio su questi ultimi l'azienda Feudi di San Gregorio per essere un'azienda del Sud è sempre molto all'avanguardia, quanto a progetti e innovazione. Secondo Capaldo, ai vini del Sud manca solo un po' di tempo e bisognerebbe capire come fare meno confusione poiché alcune regioni sono disorganizzate nel gestire i marchi e invece di fare forza comune si separano. “Mancano accordi per promuovere il vino a livello medio alto. I vini del Sud si trovano a prezzi troppo bassi e troppo differenziati, mentre la qualità è alta e poi ci sono pochi marchi e con poca disciplina”. E ancora: “Ci sono troppe denominazioni che fanno perdere valore. Insomma il Sud ha grandissime opportunità. Ma siamo ancora in ritardo. Penso al mio export, per esempio, e so bene che resta tantissimo da fare nella percezione della qualità. Forse oggi nel mio caso credo che il brand sia più forte dell'idea di una Doc che tende a semplificare tutto. Noi esportiamo il 30 per cento. Troppo poco”.
E forse per un pizzico è anche colpa di una certa critica enologica da parte degli esperti. “Guardano al Sud con la giusta attenzione – dice Antonio Capaldo – ma forse con troppe aspettative. Il giornalista spesso si fa padre e portavoce di una regione, di un territorio, e poi si aspetta negli anni una crescita esponenziale che spesso non avviene. Anche il peso delle guide è da rivalutare, il premio è utile per raccontare e fa sicuramente piacere riceverlo, ma ormai non cambia la vita dei produttori. Purtroppo c'è un notevole gap tra il parlare dei vini del Sud e il bere i vini del Sud che hanno una enorme potenzialità, ma non hanno purtroppo il giusto riconoscimento”. Come dire: se ne parla di più di quanto se ne beva. Nonostante questo però “le opportunità non mancano e noi cresciamo. La mia azienda bianchista? Sì. Direi di sì. Nulla contro i rossi, e noi in terra di Aglianico, sappiamo di cosa parliamo. Ma sento il mio animo proiettato verso Falanghina, Greco, Fiano…un mondo. Che ci migliora. Senza farci prendere dall'ansia”.