“I disciplinari che stabiliscono le leggi di produzione dei vini Doc sono oggi molto probabilmente l’unico esempio al mondo di legislazione scritta dal popolo avente causa senza intermediazione.
Ne consegue che i vignaioli stessi sono gli artefici del proprio futuro e del proprio successo. Le denominazioni che funzionano realmente sono quelle dove la gente ha deciso di rimboccarsi le maniche e impegnarsi”. Lo dice Riccardo Ricci Curbastro, presidente di Federdoc e grande conoscitore di tutto quanto riguarda il mondo delle certificazioni e della tracciabilità del vino. Chiamiamo Ricci Curbastro per conoscere il suo pensiero dopo un nostro articolo (leggi qui) su una certa conflittualità che sta pervadendo il mondo delle denominazioni in Italia. Dal caso Sardegna a quello del Chianti Classico, dalla Doc Sicilia al Primitivo, tanto per citare alcuni casi più recenti. “Io non parlerei di una maggiore conflittualità – attacca Ricci Curbastro – quanto di una scarsa consapevolezza del concetto di denominazione. Il vino tuttavia oggi è un argomento importante, la questione delle denominazioni è più di prima sotto i riflettori e si presta maggiore attenzione ad alcune vicende”. E prontamente cita come esempio alcuni casi: l’Unione Europea è stata in grado di proteggere alcune varietà, come il Vermentino e la Vernaccia, perché inseriti in denominazioni geografiche, ma non altre, quali Malvasia, Moscato, Monica e Carignano che invece risultano varietà a sé stanti, non inserite in alcun elenco di denominazione e senza saldi riferimenti geografici e quindi non tutelabili. Come dire, che il vino ha un legame con la geografia sempre più fondamentale che in passato.
Vero è anche che esistono una doppia velocità e alcune contraddizioni tra le denominazioni stesse, dovute al fatto che, tra tutte, quelle che funzionano realmente sono solo una parte. Come spiega il presidente Federdoc, ci sono fondamentalmente due motivazioni per le quali alcune denominazioni non trovano sbocco di mercato: o perché i produttori le hanno disegnate peccando di ottimismo ed effettivamente non funzionano perché non appetibili per il consumatore; oppure perché non sono state gestite bene, esattamente come, quando un appartamento in un condominio mal gestito, o in un quartiere degradato, perde valore. Altro problema è quello dei volumi: “Può forse esistere una piccola denominazione, ma si deve riuscire a farla arrivare oltre allo scaffale di casa propria: se questo non avviene la Doc potrebbe essere inserita in una più grande, accorpando ad esempio una sottozona a una zona più ampia, senza che debba necessariamente sparire. Il consiglio è sempre quello di collaborare per un obiettivo comune”.
Tra tutti i ricorsi a cui abbiamo assistito in Italia, ultimo quello fatto al Tar dai consorzi di alcune Doc e Docg della Sardegna sulla modifica del disciplinare proposta dall’Igt Isola dei Nuraghi: “Basta leggere la sentenza, per capire che il ricorso era difficilmente presentabile” afferma Ricci Curbastro. Altra questione, quella della Sicilia e della battaglia su Grillo e Nero d’Avola: “Si può partire dal vitigno, ma, se siamo stati in passato bravi a vendere il “Grillo di” e “Sicilia”, adesso dobbiamo capire che probabilmente “ Sicilia Doc” è più forte”. Per citare un’ultima vicenda, quella dei vitivinicoltori pugliesi contro il Primitivo in Sicilia: “Ne ha davvero bisogno la Sicilia con la vastità di vitigni autoctoni che possiede”? Vale sempre la regola che bisognerebbe evitare di arrivare alle carte bollate.
Oggi il mondo delle Doc smuove certamente grandi interessi. Ma è una normale conseguenza dell’evoluzione. Se la Doc è un elemento di successo, tale da creare appetiti e interessi altrui, si dovrebbe imparare ad essere consci che alcune cose si difendono bene e altre meno, tipo il varietale: “La soluzione possibile – dice il presidente di Federdoc – è la seguente: una volta che il vitigno ha successo, bisogna puntare subito sul territorio, perché quello non te lo può togliere nessuno. Nessun vitigno è difendibile in prospettiva, se non legato al territorio di appartenenza”. Si pensi all’abile operazione del presidente della Regione Veneto Zaia, allora ministro dell’Agricoltura, che salvò uno dei più grandi asset dell’enologia italiana, il Prosecco, collegandolo al nome dell’omonimo paesino in Friuli, a condizione che venisse estesa fino a lì la Doc. Per avere un quadro chiaro della situazione, Ricci Curbastro spiega che esistono due grandi scuole sul tema denominazione: quella latina, che punta sul territorio, e quella anglosassone, che invece punta sul varietale e quindi sul vitigno (unico strumento di affermazione, in assenza di una cultura della denominazione ma talvolta anche elemento di semplificazione per il consumatore ). Inoltre per noi latini la denominazione è solo un patrimonio pubblico e come tale immediatamente tutelabile per gli anglosassoni viceversa può essere protetta solo tramite un marchio registrato, un’aberrazione nella nostra concezione.
Ma qualcosa pare stia cambiando: “Cito un esempio che mi piace riportare spesso dal mondo anglosassone, quello della Nuova Zelanda che sta avendo un grande successo con il Sauvignon Blanc, in particolare quello che viene dalla contea di Marlborough. Guarda caso, sulle etichette, oggi, Marlborough è scritto più grande di Sauvignon Blanc, che invece tende a ridursi: sta nascendo quindi una denominazione in un mondo dove le denominazioni ancora non esistono”. Così, mentre la Francia punta da sempre esclusivamente sul territorio (vedi Bordeaux, Chablis, Bourgogne, Champagne), l’Italia è un caso particolare, perché negli ultimi decenni ha corso su entrambi i fronti, collegando strettamente il vitigno al luogo di appartenenza (si pensi ad esempio al “Nero d’Avola di …” o al “Montepulciano di …”). Ciò ha determinato il successo di alcuni prodotti: “È quando varietà e luogo insieme sono buoni può succedere che qualcuno provi a cavalcare l’onda di quel successo. Ma non avendo il luogo – dice il presidente di Federdoc – quello che andrà a replicare sarà la varietà. Così, chi ha fatto la difficile scelta di puntare sul luogo, il problema non se lo pone, a differenza di chi non l’ha ancora fatto”.
Quali consigli darebbe il presidente di Federdoc ai consorzi? “Primo su tutti quello di riconoscere l’aspetto culturale legato alle denominazioni e avere coscienza di ciò che rappresentano, che non è solo mercato, ma anche buona consapevolezza, amministrazione e intelligenza – risponde – Secondo, quello di ricordarci che siamo noi stessi gli artefici del nostro destino e che le scelte che facciamo, un domani le pagheremo, oppure nel caso migliore ne guadagneremo. Terzo, che solo discutendo si risolvono alcune questioni: generalmente, dove c’è esperienza di consorzi e di attività consortile si è più predisposti al dialogo, anche se non sempre è così. E poi qualcuno ha scritto che le cause costano care. Ma forse a volte nella fretta di cercare un riscatto a tutti i costi queste cose le dimentichiamo”.
Ma come vede Riccardo Ricci Curbastro il futuro delle Doc? È promettente? “Secondo me sì. Mi conforta pensare che Napa, Sonoma e la già citata Marlborough stiano diventando delle denominazioni, vuol dire che la strada è quella – risponde – Il territorio deve però essere riconoscibile nel prodotto, il vino deve avere il carattere del luogo da cui proviene, che non è fatto solo di terra e microclima, ma anche di saper fare e tradizioni dell’uomo, insomma del fattore umano. Altrimenti faremo l’ennesimo Chardonnay che saprà solo di ananas e papaya”. Per concludere, sicuramente, nella narrazione del vino, il territorio prevarrà sempre di più sul vitigno. “La gente vuole riscoprire il locale, il territorio. E così favoriremo anche il turismo. Però è necessario non perdere di vista che dobbiamo lavorare affinché tutto questo non rimanga piccolo e bello. Vini da ricordare e quantità che compensino gli sforzi. Ecco l’obiettivo”.
Sara Spanò