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Il caso

Quell’Etna nel mirino dei taglieggiatori

29 Aprile 2015
etna etna


Una notizia di quelle che non avremmo mai voluto pubblicare. E riguarda presunti casi di taglieggiamenti sull'Etna a danno di cantine e produttori di vino. 

L'indagine ha portato a 15 arresti. E speriamo che questo preservi il territorio da future azioni criminose. Peccato però. Perchè l'Etna del vino sta vivendo un momento glorioso, è un terroir invidiato da tanti, e tutta questa vicenda getta cattiva luce. Come se l'Etna fosse uguale alla Sicilia più invivibile. Un calcio sugli stinchi di chi ha lavorato per sottrarre all'oblìo questo splendido territorio.  Noi invece pensiamo sempre che l'Etna sia un'isola nell'Isola. E che tutto questo sia solo un incidente di percorso. La forza del vino buono e dei vignaioli più bravi potrà e dovrà essere il cordone di difesa del territorio etneo. Sarebbe imperdonabile disperdere il bel patrimonio costruito negli ultimi 15 anni. 

C.d.G.

Qui di seguito la cronaca dei fatti così come è stata raccontata oggi dall'agenzia di stampa Agi e una nota inviataci dall'azienda Planeta sulla vicenda..

La mafia lucrava sul vino doc dell'Etna imponendo il 'pizzo' ad alcune delle principali aziende vitivinicole attive tra Randazzo e Castiglione di Sicilia, nel Catanese. E' questo lo scenario tratteggiato dall'indagine dei carabinieri del comando provinciale di Catania culminata la notte scorsa nell'esecuzione di 15 ordini di custodia cautelare in carcere nei confronti di esponenti del clan dei Brunetto, un'articolazione della famiglia Santapaola che operava nella fascia ionica della provincia. I produttori vinicoli taglieggiati sono Planeta, Mannino, Valenti, Vagliasindi e Tornatore. Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, ogni azienda pagava una tangente annuale variabile tra i 1.000 e 12.000 euro, ai quali si aggiungevano 500 euro al mese come 'guardiania'. Gli esattori della cosca minacciavano di tagliare i filari delle viti in caso di mancato pagamento. La Procura di Catania ha sottolineato che da parte delle imprese nel mirino del racket c'è stato un atteggiamento scarsamente collaborativo, a eccezione della Tornatore. Gli inquirenti fanno notare, comunque, che nel corso delle indagini sono stati sentiti solo i dipendenti delle aziende vitivinicole e non i titolari. A tirare le fila delle estorsioni, secondo l'accusa, era Pietro Carmelo Oliveri, 48 anni, già detenuto per altri reati e al quale il provvedimento del Gip e' stato notificato in carcere. Oliveri viene indicato come il successore del boss Paolo Brunetto, morto nel 2013, al vertice del clan.

L'inchiesta è stata avviata dopo che i carabinieri hanno scoperto a Giarre il 4 aprile del 2013 un summit tra i reggenti della cosca Brunetto e i responsabili della cosca a Castiglione di Sicilia, tra i quali Vincenzo Lo Monaco, arrestato per violazione della sorveglianza speciale. Gli investigatori, tenendo sotto controllo Lo Monaco, hanno ricostruito le estorsioni soprattutto quelle ai danni dei viticoltori dell'Etna. Gli investigatori sono risaliti anche a un traffico di droga finanziato con i profitti delle estorsioni. Sono sedici quindici i provvedimenti restrittivi decisi dal Gip: 14 sono stati eseguiti, uno riguarda il latitante Davide Seminara. A un sedicesimo indagato è stato notificato un provvedimento di obbligo di firma. Le persone arrestate sono: Vincenzo Lomonaco, 45 anni, Salvatore Del Popolo, 54 anni, Giuseppe Lombardo Pontillo, di 28, Alessandro Lomonaco, di 24, Giuseppe Lomonaco, di 42, Filippo Mercia, di 30, Giuseppe Pagano, di 32, Salvatore Pantano, di 24, Antonino Tizzone, di 25, e Luca Daniele Zappalà, di 40. Il provvedimento è stato notificato in carcere a Giuseppe Calandrino, di 58 anni, Alfio Papotto, di 34, e a Pietro Carmelo Oliveri, di 48 anni, già detenuti per altre inchieste.

L'avvocato Caterina Scaccianoce firma la seguente nota: “In nome e per conto dell’azienda vitivinicola Planeta, smentisco fermamente la notizia di cronaca oggi apparsa e relativa alla presunta evasione da parte dell’azienda Planeta, da me rappresentata, di richieste estorsive provenienti da esponenti della “mafia etnea”, e, inoltre, all’atteggiamento scarsamente collaborativo che avrebbero tenuto, durante le indagini, i dipendenti dell’azienda stessa. Al riguardo dichiaro:
– l’azienda Planeta, non solo non ha mai ricevuto richieste estorsive, né tanto meno ha aderito ad alcuna richiesta di tangenti o ha pagato compensi per presunte guardianie, come incautamente riportato sulla stampa;
– un paio di anni fa, all’interno dell’azienda Planeta fu ritrovata una bottiglia contenente, oltre a liquido infiammabile, un biglietto intimidatorio. Di ciò fu fatta immediata denuncia ai Carabinieri, prima da parte dei dipendenti, e poi dal rappresentante Diego Planeta, il quale oltre a fornire la massima collaborazione, fornì ai militari dell’Arma le chiavi dei cancelli dell’azienda per consentire loro continuo e libero accesso;
– grazie a Dio (e alle forze dell’ordine), nessun altro triste episodio di criminalità si è mai più verificato”.