Per uno che decide di rinunciare alla Doc del suo territorio c’è uno che decide di rientrare tra i soci del consorzio di quella Doc.
Ha fatto un certo scalpore la decisione di un produttore come Clemens Lageder di rinunciare a marchiare i suoi vini come Doc Alto Adige sebbene facesse parte anche del direttivo. È stata immediata la replica del presidente Andreas Kofler (ne abbiamo parlato qui> e anche qui>). Ed è probabile che la discussione che ne è scaturita non finirà. Oggi raccogliamo la testimonianza di un vignaiolo come Peter Dipoli (i winelover ne conoscono senz’altro il suo iconico sauvignon Voglar, tra le oltre 40 mila bottiglie prodotte in quattro etichette).
Dipoli, socio fondatore della Fivi, vignaiolo dal 1987, ha deciso di iscriversi di nuovo al consorzio. Mentre Lageder ha rinunciato alla Doc per i suoi vini. Dopo otto anni Dipoli ha deciso di voler condividere assieme ad altri 180 soci le sorti del suo territorio. Cosa voglia dire questa decisione lo racconta lui stesso. Alla sua maniera perché Dipoli è uno che non le manda a dire. “Lo ammetto – attacca subito Dipoli – con Kofler ho un buon feeling. Professionalmente parlando abbiamo punti di contatto e visioni analoghe. Non dico che sono il suo mentore. Ma sono contento che da pochi mesi sia il presidente ed io mi sia iscritto al consorzio. Il vino in Alto Adige ha una stratificazione ben precisa. Il 75 per cento del vino prodotto è delle cantine sociali, il venti da produttori-commercianti e un piccolo cinque per cento di vignaioli che per lo più chiudono la filiera e quindi coltivano l’uva, la trasformano e ne imbottigliano il vino. Kofler, per quanto presidente di una cooperativa, quella di Cortaccia, è uno che ha una buona capacità di ascolto. È piccolo anche lui a modo suo. Capisce i piccoli produttori anche se non li rappresenta. Adesso abbiamo bisogno di gente preparata e competente e Kofler ha queste qualità. Vedo un cambio di passo. E credo che possa trovare quel difficile compromesso fra i tre gruppi che negli ultimi anni secondo me non si è mai trovato”.
Continua Dipoli: “Lageder se ne va? Peccato, significa che una quantità considerevole di bottiglie di un marchio di prestigio qual’è Lageder andrà in giro senza il nome Sudtirol in etichetta. Ma l’identità di un territorio la crei con la Doc e non con l’Igt. Purtroppo l’Igt Dolomiti sta diventando l’escamotage soprattutto per tanti produttori commercianti non solo in Alto Adige. Lui rinunciando alla Doc prende due piccioni con una fava. Evita che gli boccino i vini biodinamici i cui parametri sensoriali e analitici spesso cozzano col disciplinare. E poi da noi non è semplice: se rischi il marciume sei costretto a raccogliere prima. Però anticipando la vendemmia non riesci a raggiungere una certa gradazione e maturità fisiologica”.
Tanto per dare un’idea di cosa stiamo parlando oggi sono circa 40 milioni le bottiglie a marchio Doc Alto Adige, 5.550 gli ettari rivendicati e una prevalenza di bianchi, circa il 60 per cento e una quota export che si attesta intorno al 25/30 per cento, forse un po’ poco per un territorio che comunque ha una forte vocazione internazionale grazie anche a quel Pinot Bianco che è il vitigno più diffuso. E se qualcuno volesse cambiare le regole della Doc? “Non sono d’accordo – riattacca Dipoli – come forse lo è Kofler. Non voglio vinelli in giro. Non voglio vini Alto Adige Doc che hanno gradazioni troppo basse. Un Barolo a 11 gradi non lo puoi fare. Chiamalo nebbiolino se vuoi, ma non Barolo. La gradazione giustifica la Doc. L’alcol è un vettore di un sapore e profumi e direi anche di un territorio, un vinello è un vinello. Ci sono da noi Gewürztraminer che arrivano a potenziali 16 gradi. Lageder e forse anche una parte dei consumatori hanno problemi con vini troppo alcolici. Io gli proporrei invece di piantare in pianura vitigni che hanno bisogno di caldo e spostare gli altri più su. Bisogna adattarsi alla natura”.
Il vino dell’Alto Adige per Dipoli deve prepararsi a tre sfide: “La prima – spiega – è quella di riuscire a far crescere il valore medio. Se faccio un vino dove c’è una pendenza incredibile devo sperare di farlo così buono per venderlo in modo da far crescere la remunerazione. Per noi questo è un problema e dobbiamo essere bravi a fare diventare la difficoltà nel produrre vino un valore aggiunto”. La seconda? “È il cambiamento climatico. Va affrontato. Abbiamo venti varietà che in parte si distinguono per esigenze diverse a livello climatico. Adattare la varietà alla natura e non il contrario. Non basta anticipare le vendemmie. Abbiamo adesso temperature più alte, piove meno e anticipi di maturazione accompagnate da maturità fisiologiche incomplete. Avanza solo lo zucchero. Non fai un grande vino con l’alcol esagerato. Ma con l’equilibrio. In alto non abbiamo tanto spazio. Aprirei ai nuovi impianti sopra i 600 metri, dove le superfici disponibili sono comunque limitate”.
E poi c’è la sfida dell’export perché “va bene che ogni azienda punti a promuovere il proprio marchio ma ce n’è uno più importante. È quello dell’Alto Adige. Abbiamo ettari di vigneto limitati, possiamo lavorare per creare sul plusvalore. Come le grandi zone viticole. Ma ci vuole tempo. La visione deve portarci a questo. Qualcuno vuole bruciare i tempi. Non va bene. Si deve investire sul territorio e ci vuole tempo. Dobbiamo vendere di più all’estero. In Alto Adige il mercato è saturo. Quota export da incrementare. Assolutamente. E come si intuisce le tre sfide sono tutte intrecciate tra di loro. È come se fosse un’unica grande sfida. Che dobbiamo affrontare tutti insieme”.
F.C.