La storica Cantina Rapitalà, una delle più rinomate aziende vinicole siciliane con una forte presenza nei mercati internazionali, sarebbe stata utilizzata dalla mafia come un vero e proprio “bancomat”. È quanto emerge dall’inchiesta della Direzione Distrettuale Antimafia (Dda) di Palermo che, nella giornata di oggi, ha portato all’arresto di diversi esponenti del mandamento mafioso di Camporeale. Secondo quanto riportato nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal giudice per le indagini preliminari, l’influenza della criminalità organizzata si estendeva anche al settore vitivinicolo, con un particolare interesse nei confronti della Cantina Rapitalà. “L’attività di indagine dei carabinieri – si legge nel provvedimento – ha fatto emergere gli interessi economici di Cosa Nostra camporealese anche nel settore della produzione e della vendita di prodotti vinicoli attraverso le diverse cantine della zona. Tra queste, senza dubbio la più importante per fama e grandezza è la Cantina Rapitalà”.
L’azienda, oggi parte del Gruppo Italiano Vini, vanta un capitale sociale di 7,2 milioni di euro e un volume d’affari che nel solo 2021 ha superato i cinque milioni di euro. La società possiede una vasta tenuta di oltre 200 ettari tra le province di Palermo, Agrigento e Trapani. Le indagini hanno evidenziato la presenza di numerosi dipendenti legati alla criminalità organizzata all’interno della cantina. Tra questi, Alfio Tomarchio e Ignazio Arena – il primo deceduto – entrambi ritenuti vicini al clan di Camporeale. Inoltre, nell’organigramma aziendale figurerebbero undici lavoratori stagionali con legami di parentela con esponenti mafiosi. Questo scenario, secondo gli inquirenti, dimostrerebbe “la permeabilità del tessuto logistico ed economico della società a infiltrazioni da parte del gruppo criminale”.
La Cantina Rapitalà, secondo le accuse, avrebbe garantito al clan retto da Antonino Scardino un sostegno economico costante. “Si documentava chiaramente – scrivono gli investigatori – come la famiglia mafiosa di Camporeale ricevesse con cadenza mensile somme di denaro contante e altri beni, tra cui vino e carburante, provenienti dalla cantina, tramite alcuni suoi dipendenti”. Le intercettazioni avrebbero rivelato che Tomarchio e Arena si occupavano di versare le somme direttamente a Scardino che, a sua volta, destinava il denaro ad Anna Maria Colletti, moglie del boss detenuto Antonino Sciortino. I fondi sarebbero stati impiegati anche per sostenere le spese legali del capomafia.
La Cantina Rapitalà, fondata nel 1968 a Camporeale dalla famiglia francese Gatinais, è stata per anni gestita dal conte de la Gatinais e dalla moglie Gigi Guarrasi. Con una produzione annua di circa 2,6 milioni di bottiglie, l’azienda ha rappresentato un’eccellenza nel panorama vitivinicolo siciliano. Tuttavia, l’inchiesta in corso getta ombre sulle sue recenti vicende, ponendo interrogativi sul grado di coinvolgimento e sulle eventuali responsabilità del management nella gestione dell’impresa. L’operazione antimafia, che ha coinvolto anche esponenti istituzionali tra cui il sindaco di Camporeale, apre ora nuovi scenari su possibili ulteriori infiltrazioni della criminalità organizzata nel settore enologico dell’isola.