Il produttore di Novi Ligure commenta il caso del vigneron francese che rischia il carcere e una pesante multa
Stefano Bellotti
Nella sua piccola azienda produce in biodinamico ma potrebbe essere condannato a sei mesi di carcere e a 30 mila euro di multa per non avere trattato le vigne con un insetticida.
La notizia l'ha data qualche giorno fa Decanter con un pezzo a firma di Jane Anson. Riassumendo (a questo link potete leggere l'articolo in lingua originale), al centro della questione ci sono Emmanuel Giboulot, produttore in Borgogna nella Côte d'Or, e lo Scaphoideus titanus, chiamato cicalina, vettore di un fitoplasma che causa la Flavescenza Dorata, malattia temuta, cruccio per tantissimi produttori. Il vigneron, non intervenendo in alcun modo sulle proprie piante per contrastare questo insetto, in seguto ad una ispezione da parte del Servizio Fitosanirario vede recapitarsi una lettera da parte del tribunale in cui gli si prospetta una multa più che salata, inclusa la reclusione, se non provvede al trattamento ordinato dalla legge.
La Flavescenza dorata causa l'ingiallimento delle foglie e dei tralci, compromettendo la vita stessa della pianta. E' presente in gran parte dei territori vitati d'Europa, Italia compresa dove però si è fermata a nord della Toscana. E' arrivata dagli Stati Uniti prima degli anni '60. Per evitarne la diffusione, la Comunità Europea obbliga ad una serie di accorgimenti a cui devono attenersi vivaisti in primis e produttori. Questi ultimi devono adempiere al trattamento con insetticidi, tra cui i naturali previsti per la viticoltura in biologico e biodinamico. Chi non si attiene rischia di fare la stessa fine di Giboulot. Per quanto riguarda, per esempio, le sanzioni in Italia, come ci ha spiegato Michele Morriello avvocato presso lo studio Giuri di Firenze, uno dei pochissimi nel Paese ad occuparsi di diritto vinicolo e che assiste piccole e grandi aziende, il D.M. 31/05/2000 Misure per la lotta obbligatoria contro la flavescenza dorata della vite fa riferimento all’articolo 500 del codice penale Diffusione di una malattia delle piante o degli animali: “Chiunque cagiona la diffusione di una malattia alle piante o agli animali, pericolosa alla economia rurale o forestale, ovvero al patrimonio zootecnico della nazione, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Se la diffusione avviene per colpa, la pena è della multa da lire duecentomila a quattro milioni”. “La prescrizione – chiarisce Morriello – ha lo scopo di evitare la contaminazione e la diffusione della malattia. E la legge vuole che a questo si debba attenere anche chi produce in biologico e biodinamico utilizzando sostanze che comunque non danneggino il suo raccolto e siano pur sempre in linea con quanto stabilito dalla normativa che regola la produzione in biologico o biodinamico. Inoltre, nel testo della direttiva, non si trova una chiara citazione al biodinamico perché in questo caso viene equiparato al biologico, entrambi fanno riferimento alla stessa legge”.
C’è quindi una malattia e un modo, per la legge, di contrastarla. Ma c’è anche chi sostiene che questo obbligo tecnicamente non risolve nulla, come Stefano Bellotti di Cascina degli Ulivi, produttore che fa biodinamico sulle colline di Novi Ligure, esponente della categoria tra i più agguerriti nella difesa dei diritti di chi sceglie il metodo naturale. Lo rintracciamo al telefono proprio per chiedergli delucidazioni sul caso Giboulot e su quanto stabilito dalla Comunità Europea che scopriamo essere uno dei tanti argomenti spinosi per i produttori . “In realtà – ci dice – non c’è nessuna certezza che lo Scaphoideus sia il vettore della flavescenza, o comunque che ci sia un rapporto diretto o che sia l’unico fattore che la determina. In più, in questi anni anche con l’uso degli insetticidi non si sono ottenuti chissà quali risultati. Ricordiamo che tra i chimici c’è anche la famiglia dei neonicotinoidi, quelli “famosi” per la moria delle api, e che in viticoltura sono ancora ammessi. Per chi fa biologico o biodinamico c’è una deroga però. Si può usare per esempio il piretro. Ti costringe a trattare di notte ed è poco dannoso, ma ce ne sono anche altri. Chimiche o naturali che siano, si tratta comunque di sostanze costose per le cantine e non ti portano ad eliminare la malattia. Alla fine si riesce a contenerla solo in minima parte”. Bellotti chiarisce meglio la problematica di questa epidemia che definisce, appunto, “un grandissimo mistero”. “La ricerca non è riuscita a fornire delle risposte definitive e certe – dice – La flavescenza si presenta in una zona, poi sparisce, compare dopo tempo da qualche altra parte. Oppure in certe aree rimane endemica invece che epidemica. Le prime due regioni italiane ad essere attaccate sono state la Valle d’Aosta e il Veneto, poi è stato il turno dei Colli Tortonesi, ora l’abbiamo noi in Piemonte. Colpisce a macchia di leopardo, anche in un areale ben circoscritto e non si riesce a capire la logica. Capita, per esempio, che chi non ha mai trattato non è stato colpito e invece chi lo fa seguendo il preciso calendario e le istruzioni sì. Persino chi utilizza insetticidi chimici si è arreso qualche anno fa, smettendo di usare tali sostanze e di spendere tanti soldi. E' accaduto soprattutto in quelle zone dove il prezzo dell’uva crollava, erano gli anni Novanta, primi del Duemila”.
Bellotti parla in modo concitato, la flavescenza è una di quelle sfide su cui non dorme la notte, da anni tenta di applicare metodi alternativi, come l’introduzione tra i filari del pesco da vite, una varietà antica. Sperimentazione che gli è costata cara. “I finanzieri mi hanno tolto la Doc declassando il vigneto a parcella ad uso agricolo –racconta – Eppure, la Comunità Europea finanzia corsi sulla biodiversità nel vigneto e, se non erro, anche sull’introduzione degli alberi tra le vigne”. L’episodio comunque non ha scoraggiato il produttore il quale prosegue la ricerca dentro il suo recinto. Attualmente, in cinque ettari di vigneto sta portando avanti un progetto per combattere anche la flavescenza. “Consiste nel piantare viti europee a piede franco più forti e resistenti a questa malattia e anche alla fillossera. Ma il progetto non si risolve solo in questo e non riguarda solo la cicalina, è ben più complesso”. A sentire la sua testimonianza la strada giusta per debellare la flavescenza richiede tanti anni di tentativi sul campo. “Stiamo lavorando con piante che sono cadaveri. Bruxelles dà premi se si usa la selezione clonale, rischiamo di riprodurre all’infinito piante che sono fragili. Noi viticoltori dobbiamo svegliarci. Le malattie degenerative sono dietro l’angolo. Non ci rimane che fare ricerca per conto nostro, riprodurre le piante, riappropriarcene. Metterci insieme e fare un vivaio collettivo. Si dovrebbe ritornare alla vite europea che mette in moto un meccanismo immunologico che la vite americana non ha”.
Manuela Laiacona