Un toponimo rurale trasformato in marchio iconico. Un “vino da tavola” che diventa leggenda. Ci potremmo fermare qui, con due righe che già dicono tutto senza aver scritto nulla. Ma non si può non indugiare, né resistere all’infinita fascinazione di una storia di vino che va avanti da sei secoli e mezzo e di una etichetta che, nata esattamente 50 anni fa, colleziona primati sin dal suo debutto. Era scontato il sold out già in prevendita – con diversi degustatori in piedi – di “Scolpito nel tempo: Tignanello si racconta in cinque grandi annate”, la masterclass evento di Tg on tour, guidata da Daniele Cernilli, alias DoctorWine, con Dora Pacciani, enologa di Marchesi Antinori. Nella sala vista mare, ben prima che si aprano le porte d’accesso al pubblico, i cinque Tignanello – 1997, 1999, 2010, 2016, 2021– “respirano” nel calice. Ma bisogna attendere prima di accostarsi al bicchiere, c’è la Storia (sì, con l’iniziale maiuscola) che parla.
E racconta di una rivoluzione che si ispira e guarda alla Francia (del vino) ma si combatte in Toscana, anche qui contro un ancien régime che si blinda nella Bastiglia di un disciplinare antico quanto anacronistico, che tarpa le ali a qualunque tipo di innovazione, cristallizzando il Chianti Classico nella crisi profonda e progressiva di un vino che cinquanta anni fa sembrava non aver più futuro. Niente “moti” violenti in questa storia di ribellione, ma prove di forza, d’intuito e resilienza di due trentacinquenni eretici che, alla fine degli anni Sessanta, decidono che si possono fare vini da invecchiamento nobili quanto i bordolesi utilizzando il Sangiovese. I due ragazzi visionari osano, escono dai confini-prigione della Doc, precipitano nell’ordinarietà povera del “vino da tavola”.
È il 1971, nasce il Tignanello, primo (vero) SuperTuscan e ha due padri nobili (uno, anche per casato): il marchese Pietro Antinori, discendente diretto di quel Giovanni di Piero Antinori che nel 1385 a Firenze fu accolto nell’Arte dei vinattieri e Giacomo Tachis il più famoso enologo italiano, teorico dell’uso delle barrique di rovere francese per l’invecchiamento del vino e fautore dell’introduzione degli internazionali Cabernet Sauvignon e Chardonnay nel nostro Paese. Cinquant’anni – e ventisei generazioni, dal vinattiere Antinori – dopo, il Tignanello è nel pantheon dei vini più famosi del mondo.
“Era un nome agli antipodi di tutte le leggi del marketing – racconta Pietro Antinori nel libro celebrativo del cinquantenario di Tignanello – sapevamo di avere un’eccellenza nelle nostre barrique di legno nuovo, ma la presentavamo ai mercati con un nome quasi impronunciabile per gli stranieri. Eppure, io ero ben convinto nella scelta di quel nome”. Non solo il nome, che evoca la particella poderale estesa oggi ai 57 ettari di magnificenza collinare tra le valli della Greve e della Pesa, ma anche l’etichetta del neonato Tignanello è studiata a lungo. Pietro Antinori ne affida studio e realizzazione – ha ricordato Daniele Cernilli nel suo bell’excursus storico – a Silvio Coppola, designer pugliese. Il suo nome viene evocato durante una cena al Castello della Sala, nel 1973. Piero Antinori chiede che a firmare l’etichetta di Tignanello (che uscirà per la prima volta l’anno successivo) sia suo padre, Niccolò Antinori, in segno di riconoscenza per la fiducia ottenuta. Si inserisce il “Te Duce Proficio”, lo stemma storico della famiglia, poi il “sole” stilizzato da Coppola.
Il layout è pronto, ed è la prima volta che un designer firma una label vinicola. (ndr: Ma davvero c’è chi pensa che la scalata del Tignanello nasca da un colpo di fortuna?). Antinori e Tachis, sapevano che la loro “rivoluzione” avrebbe aperto una breccia nella legislazione Doc, nel muro ideologico oltre il quale c’erano praterie per il vino italiano. Le prime annate di vendita non sono comunque facili. Nel 1977 il Cabernet Franc entra nel blend, a dare manforte a quel vino di rottura lavorano, in cantina, Tachis – che mette a braccetto tannini ed antociani con l’eleganza che solo il sapiente uso delle barrique può donare – e Luigi Veronelli, per quella che oggi definiremmo la brand reputation del nuovo vino. Il giornalista milanese, esegeta di vini e cibi, è tra i primi a credere nell’operazione e a lodare i Supertuscan, definendoli “vini da favola”.
Come quelli degustati oggi, con Dora Pacciani che, raccontando delle colline ricche di Alberese e Galestro, pietre calcaree millenarie riportate alla luce per far da scudo alle viti contro muffe e infestanti, mette in risalto tutta l’affascinante narrazione della Toscana di Antinori, in quel quadrilatero geografico tra Firenza, Siena, Bolgheri e Montepulciano che oggi ha più potenza evocativa del quadrilatero della moda di Montenapoleone a Milano. Sfilano nei calici, il rubino-granato e la frutta matura del Tignanello ’97 che regge ancora perfettamente al logorio di ben 27 anni; il più arcigno ’99, in un equilibro che è ancora da manuale, pur scontando la nomea di “annata minore”, ma avviato su un riscatto già evidente; l’agile ed elegante 2010, figlio della pioggia, foriero di una generosità che non si sottrarrà a nuove prove; il “perfetto” 2016, per l’equilibrio di tannini, profumi, sentori che ne fanno una delle edizioni più apprezzate di sempre; il piccolo di casa, un 2021 che, ai più, appare sacrilego stappare oggi. La “rivoluzione”, senza restaurazione, ha restituito a Firenze una signoria, quella del vino. E non c’è dubbio che a regnare, su quella porzione di territorio che l’Azienda stessa rappresenta graficamente sul web come una stampa antica, sia la bandiera con lo stemma nobiliare degli Antinori.