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Un vino che si nutre di vento, sole e sale e che sprigiona eleganza e aristocrazia: la nostra masterclass su Faro Palari

01 Novembre 2024
Da sinistra Federico Latteri e Salvatore Geraci Da sinistra Federico Latteri e Salvatore Geraci

Ancor prima del suo vino, se si dovesse raccontare, con una sola e rappresentativa immagine, l’uomo Salvatore Geraci (non indugiamo in subordinate da Wikipedia perché chi legge queste pagine certamente lo conosce già) la più efficace sarebbe quella della immancabile pochette, il fazzoletto da taschino che emerge baldanzoso dalle sue giacche di tweed.

E a chi chiedesse – per retorica domanda – perché parlare del produttore prima che del vino, consigliamo una veloce “googolata” che dimostrerà inequivocabilmente l’inscindibilità, non solo mediatica, dell’accoppiata Geraci/Faro, in un gioco di protagonismi mai sopra le righe ma volutamente complementare quanto, sempre, elegante.

Elegante. È il primo degli aggettivi associati, proprio dall’architetto messinese prestato all’enologia, al particolarissimo blend di Nerello mascalese, Nerello cappuccio e Nocera che è il Faro Palari, artefice del rinascimento di quella che, negli anni 90, era la sconosciuta e agonizzante Doc Faro.

Nello specifico, “elegante” è il Palari 2016 che sfila, accompagnato da tre fratelli maggiori – 2011/2012/2014 – e dal più giovane (a oggi) della famiglia – il 2019 – davanti agli ambassador di Vinitaly International, radunati al Villa Neri di Linguaglossa per “Incoming Etna”, organizzata da Cronache di Gusto.

La verticale di Palari condotta da Federico Latteri, viaggia sull’orizzonte immaginario perfettamente a squadra che collega, in una linea d’aria lunga cinquanta chilometri, il Resort sull’Etna (a 600 metri sul livello del mare) con i sette ettari per settanta per cento di pendenza (alla stessa altitudine) della Tenuta di Geraci, a Santo Stefano Briga, frazione di Messina. Nell’incrocio a strapiombo dove si incontrano lo Ionio e il mar Tirreno e si scontrano costantemente lo Scirocco e il Maestrale, sono clima e territorio a forgiare quello che oggi è, a giudizio quasi unanime, il rosso più importante dell’Isola ma che, già nel 1990, Luigi Veronelli aveva recensito sull’Espresso come “il Romanée-Conti d’Italia”.

Viti ottuagenarie, coltivazione ad alberello, rese bassissime (contate per pianta, non per ettaro), altitudine: sono gli ingredienti alchemici di un vino che si nutre di vento, sole e sale, tanto da arrivare a rinnegare le peculiarità tipiche del Nerello etneo per costruirsi una identità unica e un profilo aristocratico.

“Aristocratico” – continuiamo il gioco degli aggettivi a cui abbiamo costretto Geraci – è il Palari 2012 che stupisce già a prima vista, con il rosso granato che preannuncia l’avvicendarsi al gusto di bacche rosse e cioccolato, sentori di humus e viole che cedono il passo alla prepotente terziarietà speziata, in un finale avvolgente e lunghissimo.

“Umbratile” – pochette oblige – è il Palari 2011 ma non nell’accezione poeticamente fosca cara a Pascoli, bensì nella riservatezza austera del solista che ha vinto la scommessa con il tempo, con lo iodio a esaltare il mix di spezie degno del più affascinante suq orientale, un sorso denso che sequestra a lungo il palato e una verticalità complessa che lo accosta ai più raffinati vini della Borgogna.

E non è un caso che l’ultimo aggettivo, (prima del semplicistico “fruttato” con cui Geraci quasi liquida il Palari 2019), sia “capzioso” – scelto con cura per il Palari 2014 – a rappresentare l’inganno suadente e perfetto di un siciliano che sembra francese ma anche, nell’accezione latina, per definire qualcosa che ti prende e non ti lascia più.

Una promessa mantenuta – “se facciamo un grande vino, ci sto!” – che riporta all’incontro del 1990, organizzato da Veronelli, tra Geraci e lo scienziato del vino, Donato Lanati, preludio di una collaborazione vincente che dura tutt’ora. Lombardo di nascita ma piemontese di adozione, tra i primi cinque enologi internazionali, è Lanati – che se non fosse stato enologo avrebbe voluto fare l’entomologo – la pietra filosofale del Faro Palari. Vendemmia manuale, non filtrato né chiarificato, maturazione su lieviti indigeni in barrique nuove e, dopo 24 mesi, affinamento per due o tre anni in bottiglia. Una ricetta apparentemente replicabile, tutto sommato.

E invece no. Il segreto sta proprio nello stile, unico, del Faro Palari. Magari, proprio nel fattore P, come pochette.