Assaggiare i vini di Dal Forno Romano non capita di certo tutti i giorni. Diciamoci la verità. Punto numero uno, perché stiamo parlando di una grandissima eccellenza che viene prodotta in pochissimi esemplari (tra 50 mila e 60 mila bottiglie l’anno); punto numero due, perché tutte queste bottiglie prendono quasi sempre la via dell’estero. E sono pochi i luoghi, in Italia, dove poter degustare questi grandissimi vini. C’è riuscito Claudio Lo Voi, titolare a Palermo dell’enoteca-bistrot Di Fetta in Fetta. Che ha organizzato una cena riservatissima a pochi fortunati clienti per far assaggiare i tre vini prodotti da Romano Dal Forno. E quindi Valpolicella Superiore Monte Lodoletta 2017, l’Amarone Monte Lodoletta del 2009 e il Recioto Vigna Serè del 2003 (ormai introvabile). A fare gli onori di casa, oltre Lo Voi, Lorenzo Righi, responsabile delle vendite di Dal Forno Romano. Che ha raccontato gli aneddoti, non solo dell’azienda, ma anche del vignaiolo, diventato icona del vino italiano. “Romano Dal Forno – racconta Righi – è la persona più umile con cui io abbia mai lavorato nella mia vita. Dice sempre di essere un semplice agricoltore. E infatti lo trovate sempre tra le vigne a parire dalle 4 del mattino”. Righi racconta di come Dal Forno sia diventata un’icona della Valpolicella riconosciuta in tutto il mondo. “Perché ci sono persone, nel mondo del vino italiano, che sono diventate quelle che sono per un merito: hanno avuto una visione. Hanno visto quello che poteva accadere in un determinato posto e in determinato tempo – dice Righi – Romano è uno di questi. Era figlio di un boscaiolo. E se è diventato un grande produttore di vini, dobbiamo anche ringraziare l’azienda degli autobus di Verona che ritardò la sua assunzione”. Già, perché Romano aveva preso la patente per guidare gli autobus. Ma la sua assunzione venne slittata di un anno. Troppo tempo per Romano che aveva una famiglia sulle spalle. E allora ecco la svolta. Prima l’incontro con Giuseppe Quintarelli, nome ben noto da queste parti e non solo. E poi la voglia di fare un vino tutto suo.
“Di soldi ce n’erano pochi – racconta Righi – E Romano recuperava le bottiglie per imbottigliare il suo vino dal vuoto dei locali. E quindi erano tutte diverse. E poi le vendeva porta a porta”. Già allora, Romano, aveva intuito che il suo vino poteva essere apprezzato da chi era disposto a spendere qualche lira in più. Ed ecco allora medici, avvocati, personalità di spicco della città, tutti i clienti di Romano: “Su una cosa non ha mai fatto un passo indietro – dice Righi – L’altissima qualità del suo vino che, come ripeteva spesso, era la sua interpretazione della Valpolicella e non poteva essere per tutti”. E quindi arriva l’azienda con i vigneti, in quella valle d’Illasi dai più ritenuta non adatta a produrre grandi vini. Il tempo ha dato ragione a Romano. Che, in tutti questi anni di attività (prima vendemmia nel 1983), ha sempre e solo prodotto due vini: Valpolicella appunto e l’Amarone, scommettendo sui vitigni autoctoni Corvina, Rondinella, Croatina e Molinara, quest’ultimo rimpiazzato nel 1991 dall’Oseleta, varietà fino a quel momento dimenticata e oggi molto apprezzata per la capacità di offrire vini di notevole struttura e concentrazione.
La sua idea di vigneto è molto semplice: densità altissima, stiamo parlando di una pianta ogni 60, 90 centimetri. E poi vigne molto basse e che producono pochissima uva. “Per realizzare una bottiglia di Valpolicella servono 12 piante – spiega Righi – mentre per l’Amarone ne servono 19”. Raccolta manuale e poi appassimento, che va dai 30 a massimo 45 giorni: “In cantina – aggiunge Righi – c’è un sistema di aerazione super tecnologico per evitare la formazione di muffe”. E poi barrique, solo nuove, oltre ai lunghi affinamenti in bottiglia: almeno 7 anni. “Romano è rigorosissimo con la selezione delle uve e non produce il suo Amarone se non è convinto – spiega Righi – E stiamo parlando di un vino che incide per l’85 per cento del totale sul fatturato. Ma lui dice sempre: “Io non voglio diventare ricco, voglio fare grandi vini”. Un concetto da ammirare”.
Per quanto riguarda la cena, c’è poco da dire. Claudio Lo Voi e il suo chef hanno ideato un menu per valorizzare (se possibile) ancora di più i vini. “Ho ideato questo evento tantissimo tempo fa – spiega Lo Voi – con l’intento di far bere dei grandi vini ai miei amici-clienti. E quindi mi sono concentrato proprio su questo aspetto, pensando a dei piatti che mai sovrastassero il vino”. Obiettivo raggiunto. A parte la chicca di uno champagne servito con l’antipasto (Carpaccio di capriolo con mousse di foie gras e crumble di mirtilli), il primo è stato uno spaghetto con un ragù di anatra, perfetto per la Valpolicella superiore. Poi è toccato al roastbeef di cervo con patate Belle di Fontenaye e cavolo nero croccante, il compito di sostenere l’Amarone. E infine la chicca: un caprino di girgentana e un tartufino ad accompagnare il Recioto del 2003. Che molti avrebbero voluto bere all’infinito.