COSA LEGGO
Parlar di cibo, vera passione italiana
Forse è vero. La cosa che gli italiani sanno fare meglio è parlare di cibo. Oltre che, per i maschietti, parlare di donne. Vale la pena a questo proposito citare un passo di Vitaliano Brancati, splendido scrittore siciliano sempre meno letto, che può ben reggere il ragionamento, a patto di cambiare l’oggetto del desiderio: dalla donna al cibo.
«Il pensiero della donna che non sia la propria – scrive l’autore di Paolo il caldo – , batte come il sangue nel cervello di tutti. Alle sette del mattino, il marito volta, sul letto, la schiena alla moglie per pensare indisturbato alla donna: subito la spiaggia di Taormina o quella di Mondello riappare nella fantasia di questo gentiluomo in pigiama, e nel mezzo del quadro una bella ungherese si scuote la sabbia di dosso con le mani di rosa, facendo sentire, fin nelle ossa di colui che le sta accanto, il suono delle spalle, dei fianchi delle ginocchia, dei piccoli piedi. La paziente moglie lo sa, e non è stato una sola volta che, rigirando per i capelli il capo del marito verso di sé, gli ha visto negli occhi imbambolati il pensiero della donna come il colore della paura negli occhi di un coniglio ancora caldo e palpitante per l’inutile corsa. (…) La moglie è una cosa, la donna un’altra! Nei lunghi pomeriggi d’estate, quando, tra le lenzuola arrotolate come corda, non trovano pace, e cercano invano di estrarre la testa dalle torbide fantasie, il loro unico conforto è il pensiero che la “donna” è in preda alle medesime smanie e va sbattendo nel proprio letto. Pensiero che li consola per modo di dire; perché invece è quello che li fa smaniare di più. A questi errori fatali si aggiunga il costume, anch’esso fatale per la pace e il lavoro, di gloriarsi di tali smanie. Chi smania di più è più uomo; una sorda gara è impegnata a chi arrivi per primo alla frase: “Non ne posso più”. (…) Questo avere i sogni, e la mente, e i discorsi e il sangue stesso perpetuamente abitati dalla donna, porta che nessuno sa poi reggere alla presenza di lei».
Ora, al di là della maestria con la quale lo scrittore di Pachino raffigura il “gallismo” dei siciliani, se cambiamo la femmina col cibo il gioco è fatto. Quanti uomini sognano la trattoria lontana centinaia di chilometri davanti alla minestra scodellata in tavola dalla moglie? Quante volte l’uomo che addenta una fetta rinsecchita di vitello servita dalla suocera sogna, estasiato, il brasato gustato due mesi prima durate una cena di lavoro in quel tale ristorante? E con quale dovizia di particolari, sino a sentirne il gusto, saprebbe descriverlo fino a sbavare di gioia? Perché quel piatto sembra essere là, come una donna in attesa, pronto per essere amato e, dunque, mangiato.
Così sembra che la raffinata traduttrice russa Elena Kostioukovitch abbia colto nel segno scrivendo “Perché agli italiani piace parlare del cibo” (Sperling, pp. 532, 22 euro). Lei, che ha tradotto Umberto Eco e a lui ha chiesto la prefazione al libro, è partita da una constatazione: quando si trovava conversazione con amici italiani a un tratto si perdeva, si smarriva. E perché mai? Perché tutti si mettevano a parlare di cibo. Ed ecco, dunque, spiegata la ragione per affrontare un argomento che è ragione di discussione per tutti gli abitanti del Belpaese.
Dice Eco: “Forse in Italia più che altrove (anche se la legge vale per ogni paese) scoprire la cucina vuol dire scoprire l’anima degli abitanti”. E confessa: quando sono all’estero «faccio due cose: cammino per le strade fino a perdermi e poi vado a cercare il cibo locale». E poi spiega perché vale la pena addentrarsi fra le pagine della Kostioukovitch: «Elena, che pure si rivela prodigiosa conoscitrice della cucina italiana in tutte le sue sfumature e i suoi misteri, circonduce per mano (e diciamo pure per palato e per naso) nel suo viaggio culinario non solo per farci conoscere dei cibi ma per farci conoscere l’Italia, che essa ha passato la vita a scoprire. Questo che state per leggere è un libro sulla cucina ma anche un libro su un paese, su una cultura, anzi, su molte culture. […] Praticano ancora, gli italiani, l’incontro con le molte cucine del proprio paese come mezzo di reciproca conoscenza? Non lo so. So che quando uno straniero (o una straniera) mosso da grande amore per questa terra ma conservando pur sempre lo sguardo distaccato di chi viene dal di fuori, inizia a descriverci l’Italia attraverso la sua cucina, allora gli stessi italiani scoprono un paese che avevano (forse) in gran parte dimenticato».
Gi. Ma.