Arianna Occhipinti “non voleva i pantaloni”.
Voleva solo una piccola vigna. Una mite pretesa: “un ettaro, solo un ettaro”. Il senso di Arianna per la vigna era così spiccato che papà non poté dirle di no. Forse era già preparato a quel destino segnato. “Nomen omen”, Arianna , appunto, un nome, un destino. E soprattutto un mito. Arianna è il l’appellativo di quella donna che dopo l’abbandono di Teseo divenne la sposa di Bacco. S’innamorarono perdutamente e si sposarono. Fu il matrimonio più lussuoso dell’Olimpo greco. Ma il nome non è solo un destino. La sua radice “ar” richiama arte, aritmetica, armonia. L'armonia della musica, delle parole, dei pensieri, delle relazioni, e poi nei movimenti, nelle voci, nel vestire, e in ogni altra sfaccettatura ornata di bellezza.
Arianna declina tutto questo per raccontare la sua giovane storia che è una storia di passioni e di certezze, di tormenti e verità. Tra qualche dubbio. Partendo da un’allegoria di Nicolas Joly: “Se amate la musica, c’è la strumento, il musicista, l’acustica. Lo strumento è il luogo dove è stata piantata la vigna. Poi c’è il musicista. Che coltiva. E poi c’è l’acustica: l’agricoltura è l’acustica. Questi sono i tre elementi che compongono l’armonia del vino”. Gli statunitensi che sono pragmatici vedono in lei, in Arianna Occhipinti, trent’anni, compiuti lo scorso agosto, una “Natural woman”. In questo Arianna si è riconosciuta e ne ha fatto il titolo del suo primo libro. Per vidimare una sua convinzione: che nel Frappato, nel Nero d’Avola e nel Cerasuolo, vini e vitigni della suo terroir, riconosce se stessa, la sua fermezza, la sua gaiezza, la ruvidità, la debolezza di una ragazza che sta ancora maturando. Ma anche i contrasti, i rifiuti e lo sforzo di sentirsi sola ma in contiguità con la sua terra. Racconta: “Vivo in un palmento. La zona di Vittoria e del ragusano è piena di queste strutture di pietra antiche come il tempo, dove una volta si pigiava il vino. Tutti quelli che non sanno ed entrano a casa mia per la prima volta, mi chiedono cosa siano quei buchi nel pavimento. Sono le vasche dove fermentava il mosto: il mio divano e il mio camino sono a due passi da quegli ombelichi della casa e forse si potrebbe obiettare che è pericoloso e che sarebbe meglio non ospitare nessuno che alza il gomito (il che rientra nella sfera dell’impossibile), ma io non posso separarmi dall’idea di stare in un posto così, che ancora sa di cantina, anche se non è una cantina. Mi piace che la mia vita si svolga al piano terra e sia immersa in quello che faccio: la vita come arte direbbero pittori e poeti. E forse mi piace perché tutto sembra avere una sua coerenza. Quando cammino sul pavimento di questa casa, capisco che l’appartenenza è fatta anche di suoni. Le pietre antiche come queste assorbono i passi, li respirano, ne rimandano un suono che è un’eco con dentro la terra e il suo calore. Non è poesia, è una cosa vera che tutti possono sperimentare”. Vera e autenticamente economica. Oggi quel piccolo vigneto di un ettaro si è moltiplicato per trenta volte.
È stato lo zio Giusto Occhipinti, l'uomo «dal fascino a lento rilascio» a far prendere, alla vita della «Natural woman», la strada dei vignaioli. «Avevo 16 anni – aggiunge – mi chiese a bruciapelo: vieni al Vinitaly con me? Ci andai e fu una folgorazione. Due anni dopo un'altra domanda secca: che fai dopo il liceo? Decide lui: Enologia a Milano con il prof, Attilio Scienza, l'Indiana Jones del vino” (con il quale intreccia un rapporto di amore e ostilità). Poi incontra Luigi Veronelli. E’ la sua consacrazione ufficiale e definitiva. Una vera “Natural woman” per il più naturale dei vini siciliani”.
Stefano Gurrera