Ce n’è per tutti i gusti, è il caso di dire. Per il gastronomo, il Natale in libreria quest’anno è una pacchia. Volumi d’ogni tipo e natura – storia e geografia, filosofia e letteratura, cucina e tavola, gusti e disgusti – affollano gli scaffali, pronti a esser cotti e mangiati, letti e regalati, per la gioia del palato e, magari, anche un po’ della mente.
Cominciamo dalle basi, ossia dalla pagnotta di cui si parla nella Storia del pane di Gabriele Rosso (Il Saggiatore, pp. 181, € 17), alimento che ha fondato la civiltà e di cui segue le sorti, coinvolgendola nelle sue tradizioni e nelle sue numerose trasformazioni: bianco, nero, azzimo, di forno, industriale, fresco, a lunga conservazione, e chi più ne ha più ne metta. A sua volta Alberto Capatti, decano degli studi gastronomici nel nostro Paese, ci propone una Storia del panino italiano (Slow food editore, pp. 138, € 16,50), intrecciando il pane e cipolla delle culture contadine con il tramezzino del conte Sandwich, che dall’Inghilterra di fine 700 approda nei salotti e nei teatri di mezzo mondo, trovando anche da noi una festosa accoglienza. Aeroporti, stazioni, autogrill, centri commerciali campano alle sue spalle.
A proposito di tradizioni, ecco Il pranzo della domenica (Il Saggiatore, pp. 193, € 18) di DonPasta, scrittore e performer che qualche anno fa aveva messo in musica La scienza in cucina in un libro intitolato Artusi Remix, e che adesso si lancia in una sperticata lode delle nonnine che in giro per lo Stivale continuano a perpetrare le migliori tradizioni gastronomiche locali. C’è Annunziata che prepara il pane carasau in Sardegna, Sara che fa acrobazie con le erbe selvatiche siciliane, Giuliana con i crostoni toscani, Mirella con la trippa laziale e così via. Possiamo accostarlo, per netto contrasto, a La cucina italiana non esiste di Alberto Grandi e Daniele Soffiati (Mondadori, pp. 270, € 19), dove si ripercorrono le tante storie dei piatti e degli ingredienti più tipici delle nostre regioni, dimostrando come in realtà questa loro caratteristica, la tipicità, non abbia niente di ancestrale, essendo stata prima sognata dagli emigrati in America, poi ripresa dal marketing territoriale, infine cavalcata dai politici alla ricerca di disparate radici cui ancorare le loro politiche nazionaliste. Sulla stessa linea d’onda Michele Antonio Fino in Non me la bevo (Mondadori, pp. 204, € 18), che ridimensiona di parecchio le frequenti mitologie dei discorsi sul vino, spesso create dal marketing, per poterselo finalmente bere con gusto e la giusta consapevolezza.
Anche Michael Pollan, giornalista e scrittore, mette le mani avanti nel suo Manuale dell’onnivoro Adelphi, pp. 230, € 24): l’uomo, ricorda, è per natura onnivoro, e nessuna dieta, pur riducendo per cultura le sostanze ingerite ad alcuni ingredienti, ha mai creato problemi di salute o di nutrimento. L’unico regime alimentare che risulta dannoso è semmai il nostro: la dieta occidentale, la quale “consiste in molti cibi lavorati e carne, molti grassi e zuccheri, molti cereali raffinati, molto di tutto tranne frutta, verdura e cereali integrali”, generando arcinote malattie: obesità, diabete di tipo 2, disturbi cardiovascolari, cancro. Come dire, facciamo attenzione.
Non manca la riflessione filosofica, come quella di Diego Fusaro, che in La dittatura del sapore (Rizzoli, pp. 233, € 17) se la prende con il gastronomicamente corretto, ovvero con la moda del cibo e delle sue forzate innovazioni: sulla sbarra larve, grilli, carne sintetica e affini. Altrettanto critico è Julian Baggini, giornalista e filosofo britannico, che in Pensa come mangi (Touring Arcipelago, pp. 496, € 19) discute delicate questioni etiche e politiche legate alle attuali politiche del cibo: sostenibilità e cronica carenza idrica, impoverimento dei suoli e monocolture, benessere animale e organismi geneticamente modificati. Da segnalare infine un prezioso libretto di Steven Shapin, noto studioso delle scienze, dedicato al nesso fra filosofia e dietetica, produzione concettuale e regimi alimentari. In La dieta dei filosofi (Sossella, pp. pp. 216, € 17) Shapin ripensa la vecchia idea per cui i grandi filosofi sarebbero tanto più disinteressati al cibo quanto più profonde sono le loro idee. Ma se uno come Wittgenstein si nutriva con disgustose uova disidratate, quel rigorosissimo pietista di Immanuel Kant non disegnava di far bisboccia, quasi ogni sera, con preziosi manicaretti annaffiati da buon vino. Anche i filosofi hanno un corpo.
Una storia diversa racconta Giancarlo Saran in Peccatori di gola (Bolis, pp. 255, € 18), dove si mettono in fila le vite e le opere di personaggi appassionati di buona tavola come Gualtiero Marchesi e Angelo Paracucchi, Torino Guerra e Gianni Brera, Gino Veronelli e Luigi Carnacina, Ada Boni, Enzo Ferrari e altri ancora, in modo da ricostruire – con sguardo trasversale – un’epoca in cui l’amore verso il cibo è al tempo stesso un impegno civile ed etico, coltivando un piacere gastronomico mai fine a se stesso. Fra questi c’è Mario Soldati, pioniere fra i pionieri della nuova onda del pensiero gastronomico del secondo dopoguerra, che con il suo mitico Viaggio nella valle del Po alla scoperta dei cibi genuini (Rai 1957) aveva fatto della cucina popolare un cannocchiale per scorgere meglio e capire a fondo la società italiana d’allora, in grande fermento e cambiamento.
Sul versante dei ricettari segnaliamo Il cinema in cucina di Giulia Ceirano e Viola Bartoli (Hoppìpolla Edizioni, pp. 148, € 25), che ricostruisce piatti e bicchieri di celebri film: che si tratti del comfort food di Kevin in Mamma ho perso l’aereo, del raffinato potage parmentier in Julie & Julia o del cocktail di Drugo ne Il grande Lebowski, il libro finisce per trasformare ogni cucina in un set cinematografico, e viceversa. Notevole La cucina delle monache di Suor Myriam D’Agostino e Annarita Sasso (Vallardi, pp.240, € 20), ormai celebri protagoniste della omonima trasmissione di Food Network. Il loro repertorio culinario spazia dalle ricette tramandate nel convento “da Madre a Madre” alle specialità della tradizione toscana e umbra, fino ai piatti del cuore, le appetitose ricette di famiglia delle consorelle, dal Veneto alla Campania.
E il beverage? C’è anche quello, a fiumi. Oltre il libro di Fino già indicato, vanno almeno ricordati due volumi assai diversi. Da un lato lo straordinario Santi e bevitori (Adelphi, pp. 202, € 19) di Lawrence Osborne, il cui sottotitolo – Un viaggio alcolico in terre astemie – indica bene la scommessa di fondo: vediamo cosa accade se giro l’Islam da bevitore forte, per non dire cupo alcolista, alla ricerca di locali benvolenti – o almeno tolleranti – dove poter sbronzarmi ogni sera. Sarà certamente più avventuroso che le sedute degli alcolisti anonimi, se ne conclude, e magari più efficace nel disintossicarsi. Dall’altro, il bel testo di Andrea Ravasco, Anche Mosè beveva birra (San Paolo, pp. 1412,14), che, ricostruendo la storia della birra nella Bibbia, va alle origini della bevanda più diffusa nel mondo, dal vicino Oriente alla Mesopotamia, dall’Egitto alla Grecia.