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Cibo e dintorni

Melilli e la Trattoria della Gloria a Milano: “I piatti serviti nei locali non hanno bisogno di identità ma di fiducia”

16 Giugno 2024
Tommaso Melilli Tommaso Melilli

Hanno definito, il suo, quello dei suoi libri, un gastro-umanesimo, ma il cibo, se fatto bene è sempre una forma, di umanesimo tra le più alte. 

Incontro Tommaso Melilli, ai tavoli di La Coloniale, in Sant’Ambrogio, un posto che tra briscole e Campari, se non fosse per Rtl presente su uno schermo, sembrerebbe ancora un posto alla Scerbanenco. 

L’intervista doveva essere sul suo ultimo libro Cucina Aperta, che abbiamo recensito, ma il discorso scivola come è inevitabile, sul suo progetto Trattoria della Gloria, a Milano,  aperto da poco, senza architetti, senza niente, con il bancone di zinco fatto realizzare da uno di quattro artigiani che ancora, in Francia, lo lavorano.

“La sfida è rimanere working class anche quando il ristorante è tuo”, afferma, mentre mi spiega la scelta di eliminare la porta tra la cucina e la sala, ovvia, per motivi di agilità del servizio. 

Si passa poi a parlare di un concetto abusato, non solo nel food, quello di identità, che, sostiene Tommaso, è una cosa da cui non si può mai partire, ma è, semmai, un punto di arrivo. “Nessuno può partire sapendo già quali piatti piaceranno, come sarà il ristorante, prima di aprire”, dice ancora Melilli.

Da Gloria, non esiste carta dei vini, vista come un inutile segno di autorità verso le persone, invitate a scegliere il vino secondo il mood e il desiderio. 

Il desiderio è una delle parole che ricorre più spesso, durante la nostra chiacchierata, di cui non si parla quasi mai, quando si parla di cibo, mentre invece, per Tommaso, “noi, i cuochi, siamo professionisti del desiderio, a metà tra la cura e il sex work. Il desiderio, l’energia che arriva dalla sala, dallo scambio, dall’essere in contatto anche visivo con chi sta dall’altra parte, che rende ogni servizio diverso, ogni sera una serata unica”.

 “Sul menu, nemmeno il nome del locale, non serve, tanto sei già entrato sai già dove sei, e nemmeno le chiocciole con i presidii Slow Food (molto numerosi tra gli ingredienti che usa, ndr), non è il menu, lo dico da scrittore, non il luogo per scrivere e de-scrivere”. 

Nella Carta del suo locale cade anche la distinzione tra primi e secondi, “se non sono antipasti” son tutti main, e se sono paste o risotti c’è scritto negli ingredienti, che senso ha specificare che sono primi?

“Più che identità bisognerebbe parlare di fiducia, è quella che fa sì che la gente torni sera dopo sera fiducia in quello che esce dalla cucina e nelle persone che lo cucinano, questo è ciò che conta in un ristorante”, dice ancora lo chef scrittore.

Bisogna tornare alla parola ristorante con il menu, con gli staples. “Ristorante, – continua – questa parola scomparsa, dalle insegne, sostituita da inglesismi e o neologismi, un luogo dove si entra per istinto, per sentito, dire o per curiosità, e dove ti aspetti di trovare dei piatti scritti su un menu, che ti intrigano”. 

La centralità del menu per iscritto ma poco scritto, il menu come “strumento di interazione tra desideri” che è un’ identità data quindi non a priori ma dagli staples dai piatti che tra tanti sono preferiti dai clienti e restano, come classici nel menu, e che fanno sì che sera dopo sera, “come in un rito magico, di magia bianca – specifica Tommaso – la gente, si presenti, sera dopo sera a mangiare”.

Poca scrittura ma tanto, quello sì, umanesimo, si finisce spesso a parlare di The Bear, di come la seconda stagione che parla dell’apertura, faticosa, di un ristorante sia coincisa, con l’apertura, faticosa, di Gloria. 

Inevitabile parlare di Antony Bourdain, nume tutelare di un ogni scrittore cuoco, (o cuoco scrittore, scegliete voi l’ordine), di come “Il titolo Cucina Aperta sia un calco di “Kitchen Confidential” ma che nel momento di proporlo all’editore non ci avesse pensato, e che rispetto alla prima versione (uscita in francese col titolo Spaghetti Wars) contenga appunto un capitolo sul cuoco newyorkese, grazie a cui “la cucina è diventata appunto aperta, cessando di essere un quel luogo oscuro e inaccessibile descritto nei suoi libri”. 

Restano gli insegnamenti di quei grandi libri, “io mi faccio chiamare chef, quando chiedo un piatto ai colleghi, mi rispondono sì chef. Quando lo facevo il cuoco, in modo meno serio e più da dilettante, non succedeva” assieme all’altro grande insegnamento che “in cucina ai colleghi non si debba mai mentire, e che la fiducia, anche tra chi lavora fianco a fianco in cucina, sia fondamentale per fare sì che un ristorante sia sostenibile, umanamente ed economicamente”. 

Ho imparato tante cose questo pomeriggio, e spero che esca presto il nuovo libro, “Solo in francese per ora, in italiano vedremo”, e che forse in questo mondo che trabocca di food ma in cui scarseggia il cibo, sarebbe meglio tra neo bistrot, trattorie 2 o tre punto zero, nuovi format dai nomi alieni, si tornasse ad aprire semplici ristoranti.