Giornale online di enogastronomia • Direttore Fabrizio Carrera
Cibo e dintorni

Il fine dining è morto, viva il fine dining

02 Febbraio 2025
Tavola apparecchiata Tavola apparecchiata

“La notizia della mia morte appare grandemente esagerata”, ironizzò Marc Twain leggendo il proprio coccodrillo. È un po’ quello che accade oggi al fine dining: alive and kicking, per quanto indubbiamente malandato

Somiglia a un bollettino di guerra, la cronaca gastronomica di questo inizio 2025, che continua a lasciare sul campo vittime eccellenti. Già la presentazione della guida Michelin lo scorso 5 novembre aveva rappresentato l’occasione per un censimento impietoso: chiudevano tra gli altri ViVa di Viviana Varese, trasferitasi da Eataly Milano al Passalacqua sul lago di Como; Bianca di Emanuele Petrosino, giovane chef fra i più brillanti d’Italia, passato al Grand Hotel Vesuvio di Napoli; Vitium di Michele Minchillo a Crema; il Cannavacciuolo Cafè e Bistrot di Novara (ma lo chef Vincenzo Manicone conquistava la stella al Tancredi di Sirmione); Spazio 7 di Antonio Romano a Torino; la Locanda Tamerici dello chef Mauro Ricciardi ad Ameglia e Orto by Jorg Giubbani a Moneglia; Senso di Alfio Ghezzi al Mart di Rovereto; il Parco di Villa Grey a Forte dei Marmi (il cui ex chef assumeva la guida della casa di Enrico Bartolini a Noceto); il Faro di Capo d’Orso con la consulenza di Andrea Aprea e Dal Corsaro della famiglia Deidda a Cagliari (ma “per ristrutturazione aziendale”). Grazie ai nuovi ingressi, tuttavia, il pallottoliere Michelin restava sostanzialmente in equilibrio (393 stelle contro 395), dopo anni di crescita impetuosa (nel 2022 erano 378, nel 2023 già 385). Un’inversione di tendenza di per sé degna di attenzione.

Il peggio, tuttavia, doveva ancora arrivare. È giunta il 4 dicembre la notizia della chiusura dell’Arcade di Nikita Sergeev, giovane chef che si era da poco trasferito in un ampio locale sul lungomare di Porto San Giorgio. In un’intervista questi lamentava la mancanza di stimoli e prometteva di tornare presto ai fornelli, mentre iniziavano a rincorrersi le voci su esposizioni debitorie ingenti. Il 13 gennaio toccava a Terry Giacomello, le cui strade accidentate si separavano da quelle del ristorante Nin sul lago di Garda per motivi oscuri. E ancora Accursio Craparo, che a Modica ha deciso di concentrarsi sulla trattoria, e i Bros’, che hanno chiuso in sordina il locale nel centro storico di Lecce. Fino a Felix Lo Basso, che ha annunciato in una fumantina intervista al Corriere della Sera la fine dell’eponimo home restaurant milanese; a Matteo Baronetto, che si dice in procinto di lasciare i fasti del torinese Del Cambio, prigione dorata del suo inquieto talento, e all’irrequieto Christian Mandura. Il solito Lo Basso, incline al mugugno, non le ha mandate a dire: per lui, in procinto di traslocare a Lugano in un locale polifunzionale con bistrot e fine dining, il solo gourmet sarebbe ormai impraticabile a causa del ridotto potere d’acquisto della clientela italiana e di un turismo altospendente, principalmente cinese e russo, che dopo il covid non si sarebbe più ripreso. Il fine dining, insomma, sarebbe morto. O almeno il suo. E il dibattito è immediatamente divampato col consueto sensazionalismo acchiappaclick.

Corrisponde indubbiamente al vero che in una fase di manifesta contrazione del mercato, dettata dalla raffica degli choc subiti negli ultimi anni, l’espansione indefinita dell’offerta high end debba andare incontro a uno stop. La notizia della morte del fine dining, tuttavia, appare fortemente esagerata, parafrasando l’ironia di Mark Twain di fronte ai coccodrilli sulla propria scomparsa. Tanto per cominciare molte sono le partite di giro, in cui si chiude per aprire altrove o si cambia chef, senza cambiare fascia di ristorazione, come pare accadrà da Nin, che resterà un fine dining (nei social i tag sono #fusioncuisine, #gourmetcuisine e #michelinstar). Altre volte si tratta di questioni e scelte squisitamente personali. Solo la vicenda di Craparo, su una scena ostica come quella modicana, può essere pienamente ricondotta a un paradigma di downshifting, o semplicità volontaria, con l’adesione al format della trattoria. Le dichiarazioni di Floriano Pellegrino e Isabella Potì lasciano anzi ipotizzare un desiderio di alzare l’asticella verso nuovi traguardi, che nel vecchio e piccolo locale di via degli Acaya sarebbero andati probabilmente frustrati, insomma un trasferimento col segno più. Staremo a vedere.

Veniamo da decenni di sviluppo ininterrotto della cucina creativa e del suo pubblico, anche sull’onda dei successi televisivi. Su questa crescita aritmetica, tuttavia, si è innestata la crescita geometrica delle brigate, per cui nel via vai dei commis diventati capo-partita, ogni bravo chef ne ha sfornati molti altri, senza che potessero tutti costruirsi un proprio ubiconsistam. Era già successo negli anni ’90, quando Yves Camdeborde, in arrivo da La Tour d’Argent e dall’Hôtel de Crillon, creò La Régalade, primo ircocervo della bistronomia (ma il termine è arrivato solo nel 2000 grazie al critico Sébastien Demorand). Un’intuizione geniale, che spostando i confini fra le branche della gastronomia e inventandone una nuova, consentiva di osmotizzare talenti e clienti, rimescolando le carte del mercato. Le promesse tuttavia sono state spesso tradite: i ristoranti bistronomici hanno via via alzato i prezzi e spesso hanno perfino conquistato la stella, finendo risucchiati nel mondo dal quale si erano rumorosamente distaccati.

Ora sta succedendo di nuovo: le turbolenze in atto somigliano alla ricerca febbrile di nuove formule per far quadrare il mercato. Poiché la fascia alta, dalla doppia stella in su, sembra relativamente risparmiata, c’è chi lancia in mare la scialuppa sfidando le onde per raggiungerla, mentre altri preparano le valigie per fare appello a un tribunale straniero. L’impressione è che a entrare in crisi sia stato il paradigma autoreferenziale incentrato sullo chef, dominus dell’esperienza più del cliente, cui sono stati imposti menu al buio, tavoli e perfino orari comuni; a maggior ragione se la cucina non è per tutti, laddove il piatto comfort difficilmente piange. Duole dirlo, ma chi fa avanguardia in Italia ha sempre patito, da Paolo Lopriore, che per primo ha virato sulla ristorazione quotidiana, a Luigi Taglienti, magnificamente parcheggiato da Io a Piacenza; fino appunto a Matteo Baronetto, Terry Giacomello e i Bros’. “Il re è morto, viva il re” era la formula che celebrava ogni successione dinastica. C’è da scommettere che morto un fine dining, presto o tardi se ne farà pure un altro.