L'intervista all'enologo di Cantine Valenti, un passato in Svizzera, un progetto sui Nebrodi: “Autoctoni? Non per forza. E l'Etna non sarà solo una moda”
(Antonio Campisi)
di Giorgio Vaiana
La Sicilia l'aveva così tanto nel cuore che alla prima occasione ha rifatto la valigia ed è tornato immediatamente.
Antonio Campisi, 38 anni, nativo di Galati Mamertino, in provincia di Messina, nel cuore dei Nebrodi, oggi lavora come enologo alle Cantine Valenti, che si trovano a Passopisciaro in provincia di Catania e sull'Etna. La sua è una storia di determinazione, di passione, coraggio. Un mix di tante cose belle, a partire dalla sua Fabiana, oggi sua moglie, che da Firenze lo ha seguito fino in Svizzera. Ma facciamo ordine. Antonio inizia ad “annusare” il vino all'Antica Filanda, il ristorante che si trova a Capri Leone in provincia di Messina. Lavorava dagli zii per pagarsi gli studi. Un diploma di perito meccanico in tasca e le prime esperienze con i grandi vini. Perché all'Antica Filanda si cominciava a fare sul serio con la cantina e qui si vedevano bottiglie che pochi potevano permettersi. Dopo il diploma, il viaggio verso Brescia e Desenzano dove Antonio lavora per tre anni come operatore di trattore agricolo. Ma non era felice. Pensava e ripensava al mondo del vino. Il destino lo sta pian piano conducendo a realizzare il suo sogno. Prima però è necessaria una sosta a Firenze. Torna a fare il cameriere al ristorante InCanto. Qui conosce la maitre Isabella con cui si instaura un bellissimo rapporto di amicizia. Antonio confida a Isabella che il suo sogno sarebbe quello di laurearsi in enologia e Isabella lo accontenta, facendolo lavorare solo la sera: “Non potevo deludere la fiducia che mi era stata data – dice Antonio – Mi laureo in 2 anni e mezzo”. E così se al liceo lo studio non era certo la sua passione, all'università la laurea diventa un lavoro vero e proprio.
“La sera, poi, al ristorante avevo l'occasione di assaggiare vini prestigiosi – dice – Questo locale era sempre frequentato da persone di un certo tipo, che spendevano tranquillamente anche 200 euro per una bottgilia. Una cosa che io nemmeno potevo sognare. Poi l'università mi ha fatto diventare amico di tanti figli di proprietari di aziende toscane o enologi. Quindi facevo visite alle loro tenute, assaggiavo i vini di famiglia. Insomma è stata una vera esperienza importante e fondamentale per la mia carriera”. La laurea, dunque, e l'arrivo in Svizzera nell'azienda Agriloro a Genestrerio, nel Ticino. Cantiniere prima, poi responsabile della produzione con la gestione di 20 ettari, 15 operai e una produzione di circa 250 mila bottiglie: “Il mio titolare era un fantasista – racconta Antonio – e mi faceva sperimentare. Facevamo blend anche con dieci vitigni. Anche se il mio preferito continua a rimanere il Taglio Bordolese (Merlot, Cabernet sauvignon e Cabernet Franc). Ma qui dovevamo gestire 1.300 barrique. Non era semplice. La mia soddisfazione? Far ricevere per quattro anni consecutivi il titolo di miglior cantina svizzera alla mia azienda oltri a svariati premi ai nostri vini”.
Ma il desiderio è sempre lo stesso: tornare a varcare lo Stretto, stavolta in direzione contraria, verso Messina. E la possibilità gliela da la cantina della famiglia Valenti, 30 ettari, 150 mila bottiglie. “Qui scopro il Nerello Mascalese e il Carricante – racconta Antonio – e alla nostra prima uscita ufficiale riceviamo subito dei premi per i bianchi e i rosati. Le prime medaglie per questa azienda. Vediamo adesso che succede con l'uscita dei rossi”. Antonio è un enologo che potremmo definire “romantico”, uno di quelli che ha la sua filosofia, il suo concetto di vino e che porta avanti a testa bassa, perché dice “un vino deve uscire dalla cantina solo quando è pronto. Oggi invece, molto spesso non è così. I consumatori, poi, vorrebbero vini pronti e che durano nel tempo. E la cosa non è possibile”. La terra siciliana sotto ai piedi, un Vulcano sulla testa ( e dentro la testa per le decine di idee che gli frullano in testa). Ma com'è la Sicilia enologica vista da lontano? “Mi spiace dire che ancora oggi la nostra terra viene vista come produttrice di vini da taglio, da grande distribuzione e sono davvero poche le eccellenze riconosciute. Il problema è che comunichiamo poco e male”. Qual è il problema secondo lui? “Il fatto che in questo mondo, in quello del vino, sono entrati a far parte non addetti ai lavori, persone con soldi da investire a cui era stato detto e promesso che fare vino è come mettere i soldi in banca. Beh, è vero a metà. Il problema è che queste persone guardano solo al profitto. Io sono per fare eccellenza, sempre e comunque. Piccole produzioni”.
L'Etna è la sua nuova scommessa, ma non vuole sentire il termine moda: “Far durare il successo di questa zona siciliana dipende solo da noi che lavoriamo da queste parti. In giro non ci sono ancora tanti vini di annata. Fra 10, 12 anni capiremo se l'Etna è stata una moda, o come credo, sarà una splendida conferma”. Ama il Pinot Nero “mi affascina il Nerello Mascalese, mentre non mi piace il Nero d'Avola, troppo aggressivo, troppo violento e ha bisogno di troppo legno, anche se fuori rimane il simbolo della Sicilia”. E' uno da “piccole zone”, tanto che “sto facendo degli esperimenti sui Nebrodi per un vigneto. Abbiamo tutto come l'Etna: l'acqua, l'altezza. La mineralità la recuperiamo in qualche modo”. Il taglio bordolese rimane il suo prefeito “nelle annate giuste non ce n'è per nessuno”; mentre sugli autotoni ha qualche riserva: “Va bene valorizzare il territorio – dice – ma è più importante valorizzare il vino”. Un calice a pranzo e uno a cena, “mai fuori dai pasti”, racconta Aantonio che viaggia metaforicamente in Sicilia per raccontarci i suoi territori preferiti: “Noto, Avola, la zona dell'Etna dove lavoro e qualche cosina di Cerasuolo di Vittoria. E poi i Nebrodi”. Proprio qui vorrebbe avviare una sua pizzola azienda: “Roba da pochi numeri. Io intanto sono qui sull'Etna e spero di rimanerci a lungo per lasciare la mia impronta e comunicare attraverso i vini la mia idea. Poi si vedrà”. Si lascia affascinare dai grandi rossi, Chianti in primis, ma anche da quelli del Trentino, dei bianchi della Basilicata “e adoro i vini dolci, soprattutto quelli delle Eolie – dice – E' un peccato che questi vini non vengano valorizzati come dovrebbero. Per me sono il top della Sicilia. E invece, soprattutto da noi, vengono visti come un mini calice da fine pasto regalato dal ristoratore di turno”.
Una Sicilia dunque che può e deve fare ancora molto: “Ma lo deve capire il siciliano stesso che è il vero punto di forza di questa isola. La terra non può cambiare, ma l'uomo sì. Sono fiducioso”.