di Titti Casiello
Esiste un tempo per i vini? E se sì, quello dei vini campani è a breve scadenza?
La masterclass organizzata dall’Associazione nazionale “Le Donne del Vino”, al Grand Hotel Serapide di Pozzuoli, affronta il tanto mai dibattuto tema dell’invecchiamento dei vini bianchi campani, perché il dono della longevità non è solo una prerogativa dei vini rossi, nonostante nell’immaginario collettivo, tra quelli da dimenticare in cantina, il podio spetti sempre a loro. Basta, infatti, superare i soliti stereotipi per scoprire che quella valenza d’animo può stare e, anzi, sta anche in un bianco addirittura sotterrato nell’entroterra di una cantina. E a dimostrarlo non sono solo i grandi vini d’oltre Alpe, come lo chardonnay nelle sue vesti più auliche di un Pouligny o Chassagne Montrachet o, oltrepassando il Reno, in un Riesling ultracentenario in versione Q.m.P., ma anche i nostri nazionali, in quei vitigni che paiono geneticamente nati per invecchiare a ritroso, come lo Chardonnay umbro o valdostano, e nei nuovi vessilli, tutti meridionali, come l’Etna Bianco e il Fiano e il Greco di Tufo della Campania.
In questi vini il verbo “invecchiare” non assume mai significati di decadenza, ma, al contrario di “elevage”, a voler utilizzare un francesismo o semplicemente a darsi un tono, che diventa, così, la quinta essenza del vino: è il tempo a generare nuova forma e sostanza in quel liquido. E già, perché una volta terminata la fase di imbottigliamento, la direzione diventa ignota alla mano umana, che smette di “poter fare”. Da qui in poi, il futuro è solo un abbandono inconsapevole e ignoto verso un’oscura bellezza. Certo, pur vero, che se non si parte da basi solide, è sterile, però, potersi affidare solo alla buona sorte. Preparare per raccogliere era il motto contadino e così è anche per il vino. Lo starter dell’elevage è rappresentato così da innumerevoli, a volte minuscole, ma quanto mai essenziali, azioni dove ognuna, farà diventare grande, adulto, maturo e finanche anziano un vino. Una piramide la cui base è indiscutibilmente la maturazione dell’uva, in quel punto di equilibrio tra le sue tre diverse forme di maturità (tecnologica, fenolica ed aromatica) dove a primeggiare sono l’alcol e acidità: elementi primi ed ultimi senza i quali il futuro di un vino non potrà mai essere roseo. Ed è roseo si, il futuro prospettato in degustazione dalle Donne del Vino nella Masterclass “I bianchi da invecchiamento” che dimostra l’elevage dei vini bianchi campani.
(I vini in degustazione)
Almeno così è, di certo, per “Vigna Astroni Campi Flegrei” una Falanghina Doc 2017 prodotta da Cantine Astroni, che scardina quella (veramente) fastidiosa idea che questo vitigno sia sempre il figlio di un Dio minore, leggasi come Fiano o Greco. Vigna Astroni dà la riprova che la longevità è insita anche nella Falanghina e a dimostrarlo è il bravo enologo Gerardo Vernazzaro, che da un vigneto di poco più di un ettaro, a ridosso del Cratere omonimo, produce un bianco dalle lunghe prospettive future. Una 2017 i cui colori diventano le lancette del tempo che è scorso, eppure luminoso come una veste battesimale. Naso d’annata, ricco di terziari, che sa di grafite, di sulfureo, ma soprattutto sa, semmai una sensazione potesse assumere una sostanza, di notevole finezza olfattiva. Sorso teso che gioca al palato tra picchi di sapidità e leggere morbidezze. La persistenza è tanto lunga quanto gli echi degli odori che ritornano in retronasale.
Si mostra, invece, in altre vesti, trattandosi anche di un diverso biotipo, la Falanghina dell’Alta Irpinia, un’uva praticamente inesistente in questo territorio fino a meno di dieci anni fa. Ma grazie alla volontà di aziende come Quintodecimo, oggi è possibile rivendicare in Disciplinare anche la Dop Irpinia Falanghina come Via del Campo 2018 dai colori tenui e da un naso di stampo floreale e fruttato, con qualche sfumatura lievemente vegetale. Pensando alla sua prontezza di beva, viene da parafrasare il testo di De Andrè (da cui trae il nome questo vino) “se di amarla ti vien la voglia basta prenderla per la mano”, ma a saper attendere qualche anno in bottiglia “ti sembrerà di andar lontano”.
A differenza della Falanghina, il Fiano, invece, è da sempre stato considerato un vino da invecchiamento. Non sorprende, quindi, se il Brancato, un Fiano di Avellino Docg Riserva 2018 di Tenuta Cavalier Pepe sprigiona già al naso intense note fruttate e iodate con lievi accenni terziari e un tocco di tostatura. Sorso coerente e fine, ricco di acidità. In evoluzione.
E poi, finalmente, arriva quell’oscura e inconsapevole bellezza dell’elevage, che si concentra appieno in CampoRe di Terredora Dipaolo un Fiano di Avellino Docg 2012 di un’opulenza leggera regalata da una fitta nota minerale, poi di polpa fruttata e infine di finissime note di acacia. La piacevolezza è già all’olfatto, ma lo diventa ancor di più al palato che si fa vivo e fresco. Ed è’ grazie alla notevole spinta acida che il sorso riesce a reggere una struttura così riccamente corposa ed infinitamente piacevole. CampoRe è un vino che Lucio Mastroberardino ci regalava ad un tempo e che oggi ci viene regalato in modo altrettanto incommensurabile dalla sua famiglia. E Campore, anche in quest’annata si dimostra una delle migliori espressioni del Fiano di Lapio e conferma che il tempo, come il vino, “è solo una distensione dell’anima” (Sant’Agostino).