di Alessia Zuppelli
In continua evoluzione, sempre in crescita e non solo in altitudine, l’Etna muta da millenni il suo aspetto, ridisegnando l’architettura del paesaggio.
Mutamenti che non di meno riguardano anche il “versante” vitivinicolo. Il Sud ovest è fra quelli storicamente più rilevanti dal punto di vista qualitativo, già da prima della nascita di quel “brand” Etna che, grazie ai pionieri del Vulcano che sul versante Nord hanno scommesso, ha fatto da volano per tutto il territorio. Si pensi che già a metà Ottocento ad Adrano, in un’area che oggi non rientra nella denominazione di origine controllata, il Barone Spitaleri di Muglia nel Castello di Solicchiata produceva vini pluripremiati prodotti da vitigni francesi e gli “Champagne dell’Etna” (allora si potevano chiamare così). I comuni di Biancavilla e Santa Maria di Licodia rappresentano zona di raccolta per la lavorazione delle uve anche in altri versanti del Vulcano, come testimoniano anche specifiche etichette da parte di aziende sul versante opposto. Pochissima è la percentuale di uve, tutte di altissima qualità, che resta nelle aziende del luogo. La peculiarità di questo fazzoletto di terra lontano dal mare, ma che risente dell’influenza dei laghi dell’ennesse Pozzilo e di Pergusa riguarda il terroir, in particolar modo l’esposizione e la perfetta maturazione delle uve, raccontano Piero Portale e Margherita Platania, due voci storiche della viticoltura etnea del Sud Ovest, rispettivamente proprietari delle aziende Masseria Setteporte e Feudo Cavaliere.
“La terra qui è più antica. Molte vigne ricadono su quei terreni risalenti al periodo ellittico, ovvero il grande Vulcano collassato circa 15.000 mila. Pochissime sono le zone con lava emersa come a Nord. I terreni sono chiamati tradizionalmente “funnali” per sottolinearne proprio la loro profondità. Caratteristica del suolo, questa, che consente alle uve di rilasciare infine grandissima sapidità nei vini”, spiega Piero Portale, sottolineando il grado perfetto di maturazione (meccanica e fenolica) che si raggiunge in una zona dove il sole tramonta e dunque si ha più calore e più luce, e in un periodo ben preciso, quello della celebrazione dei santi patroni di Biancavilla, San Placido e San Zenone agli inizi di Ottobre: “La nostra vendemmia non poteva iniziare prima di questi festeggiamenti”, ricorda. Le particolari caratteristiche pedoclimatiche sono condivise anche da Margherita Platania: “Il nostro è il lato più antico della produzione. La mia è un’azienda di aria e di luce, le vigne, antichissime, arrivano fino a mille metri di altitudine. Qui le colate sono di epoca molto lontana. Ho trovato dei fossili di vite, probabilmente risalenti all’eruzione del 1669. Riguardo la luce non ci sono praticamente punti di ombra. Dal punto di vista vegetativo è un’area molto ventilata e riscontro pochi problemi di attacchi di funghi. Temiamo un po’ l’oidio, però se si è dei buoni viticoltori si riesce con un pizzico di fortuna a controllarlo, ed io che non faccio chimica devo stare più attenta”.
La storia della viticoltura a Sud Ovest è ben testimoniata dai racconti di famiglia intrisa di suggestioni culturali e passione per la terra. Una tradizione, quella vitivinicola, che coinvolge tutto l’intero versante. La famiglia Portale è presente sul territorio dal Settecento, trasferitasi qui da Palermo dopo essere arrivata dalla Francia. Testimonianza ne è la Casina Portal con all’interno una piccola cappella avente una campana forgiata nel 1705. Feudo Cavaliere invece nasce nel momento in cui il Regno delle due Sicilie venne annesso al Regno di Italia. Da quel momento, racconta la Platania, tutti i beni della Chiesa passarono ai podestà, i quali a sua volta li vendettero ai privati. Questo frangente storico è ben raccontato da Federico De Roberto nel celeberrimo romanzo “I Viceré” che vede a Catania la famiglia Uzeda protagonista di questo particolare momento storico, ricco di speranze e illusioni al contempo. Membro degli Uzeda è Don Blasco, monaco benedettino dedito più ai piaceri terreni che a quelli spirituali il quale – racconta De Roberto – acquista i vigneti di Feudo Cavaliere dal quale se ne ricava dell’eccellente vino. La vicenda è raccontata nel diciassettesimo capitolo del capolavoro di De Roberto. Al monaco, ancora oggi l’azienda dedica un’etichetta. Di impianto benedettino resta il vigneto, con una impostazione “francesizzante” spiega l’erede: “I tempi del nostro vino sono molto lunghi, come un tempo. Già nei primi anni del secolo scorso la mia famiglia poteva permettersi un enologo e si praticava la diraspatura. Conserviamo i primi torchi arrivati dalla zona del Monferrato. Si invecchiava qui in azienda anche il cognac e producevamo spumanti per uso familiare. Chissà, magari in futuro ne nascerà un nuovo progetto. Oggi produco solo vini fermi rispettando quel tempo di cui sopra. In commercio presente l’annata 2013 per i rossi, e la 2016 per i bianchi”.
Gli antenati etnei, dunque, avevano già chiara la qualità e le potenzialità del vino prodotto ai piedi del Vulcano. Piero Portale racconta che quando si istituì la Doc Etna il papà viaggiava molto ed era ben consapevole dei benefici che la denominazione avrebbe apportato al territorio. Capì che si trattava di una svolta davvero seria. Adesso da quelle vigne che già a inizi del ‘900 coltivava il bisnonno, Masseria Sette Porte produce circa 50 mila bottiglie. “Noi da sempre abbiamo prodotto uva e successivamente vino. Mio nonno era fra i più noti nel paese. Negli anni ‘70 modernizzò i vigneti di famiglia e fece le prime spalliere, in sostituzione agli alberelli. Le spalliere hanno dato il loro frutto, non violando la qualità dei prodotti della zona. La storia dei nostri imbottigliamenti nasce dopo una serie di esperimenti nel 2002”. Il nonno di Margherita, invece, curava non solo le vigne, ma anche “lo spirito” dei suoi dipendenti: “Mio nonno teneva tantissimo all’istruzione. Voleva che anche i “villani” sapessero leggere e scrivere. Mi fregio e racconto sempre di questo amore per la cultura, anche io sono così. Studio tanto ancora oggi. Sono affascinata dalla scienza, come il mio avo Platania D’Antoni, unico catanese che scrisse delle resistenza del Nerello Mascalese alla fillossera”. Ma cosa si trova in un calice di vino ottenuto nel Sud Ovest? Certamente, è un versante che consegna grande finezza e vini sottili, dal profilo organolettico completo e dal bouquet ampio, sia per i rossi dal tannino più levigato che per i bianchi di grande verticalità, espressività, e longevità. Sono vini più ricchi e profumati sostiene Margherita Platania grazie alla perfetta maturazione: “Raccogliamo solo a maturazione completa e mi posso permettere di lasciare l’uva fino a novembre sulle piante”. “Il Carricante marca il vino da cui ne deriva, per sapidità soprattutto. È un’altra storia. Quello che la terra ci da noi vogliamo esprimere, e se devo saltare annate le salto”, sostiene Piero Portale, il quale offre una chiave di lettura diversa di riconoscibilità dei vini etnei che va oltre le contrade, individuandola nei territori del periodo ellittico, dei quali il più grosso assembramento è proprio fra Santa Maria di Licodia e Biancavilla.
Viene da chiedersi come mai, dunque, il Sud Ovest stia ricevendo solo ultimamente una timida attenzione e quale indirizzo potrebbe prendere il Consorzio in tal senso. È mancata forse una o più personalità forti e determinanti come è accaduto sull’altra sponda del Vulcano? Ne è convinto Piero Portale: “Il mio indirizzo politico è quella terra: mai un’annata uguale all’altra. Il Nord è l’ennesima espressione di colonizzazione, ed è stato senza dubbio il volano del mondo Etna grazie a Marc De Grazia e Andrea Franchetti, anche se già erano presenti aziende con un passato e una storia da raccontare come Barone di Villagrande e Benanti. Ma sono stati loro a lanciare questo brand che oggi sta raggiungendo vette qualitative altissime. Questa frammentazione che è avvenuta negli anni è scaturita anche per incapacità nostra. Doveva esserci un‘azienda, un personaggio volano anche da queste parti. Vi è stata incapacità a rendere indigeno il fenomeno”. Ricorda il compianto Andrea Franchetti e il pioniere dell’Etna Marc De Grazia anche Margherita Platania, la quale auspica rispetto e tradizione guardando con molta attenzione e gioia ai giovani viticoltori: “Io dal punto di vista vitivinicolo in futuro ho un po’ di paura, anche se il nostro versante è abbastanza sereno. L’Etna è stata scoperta per quello che era, non è diventata grande perché si sono innescati meccanismi successivi. Il Nerello mascalese non è stato inventato, esisteva già. È quello che hanno trovato De Grazia e Franchetti. Oggi invece sta assumendo, a volte, dei tratti internazionali. L’Etna non è quella che alcuni stanno costruendo per il mercato. Spero che comunque si continui a parlare di questo territorio e dei suoi vini con grande rispetto per il territorio e chi chi ha preceduti. Vedo ricchezza anche nei giovani viticoltori, quelli che lavorano per passione, non coloro che stanno investendo per moda”